Il
sogno
Ero
giunto alla fine del mare dove le onde incontrano la terraferma e dove
la profondità dell'acqua svanisce gradualmente, portando con
sé la paura e la sensazione di galleggiare sul nulla nero e liquido
della morte che avevo provato al largo. Sul vuoto nero che ti tiene
sospeso in un moto instabile e ti attanaglia le viscere e il pensiero.
Dove la paura di affondare lentamente e fluttuare all'infinito ti toglie
la sensazione del tempo trasformandoti nel relitto di un corpo senza
tomba.
Ero intirizzito dal freddo, la pelle irritata dal sale, gli abiti pregni
d'umidità. Una sete dannata mi seccava la gola ed i muscoli provati
dai sobbalzi del gommone erano un unico dolore. Ma di tutto questo non
m'importava, era la fine del mare ed era anche la fine dell'incubo.
Più che scendere dalla barca, fui scaricato in malo modo dai
due energumeni che per tutta la traversata mi avevano scrutato torvi
e trattato con malagrazia e non avevano atteso nemmeno di toccare con
la chiglia la sabbia, che mi ero trovato vacillante con l'acqua ghiaccia
che mi arrivava all'inguine. Attorno, la notte fondeva mare e cielo
e lo sciabordio delle onde che si frangevano sulla costa lo percepii
solo quando si spense in lontananza il ruggito del motore del gommone
che riprendeva il largo, un attimo dopo che avevo appoggiato i piedi
sul fondo. Ero rimasto solo.
La spiaggia deserta sembrava non finire mai, mentre la percorrevo come
un ubriaco affondando nella sabbia, diretto verso l'interno, tra decine
d'ombrelloni chiusi che la punteggiavano in filari precisi. Un piccolo
esercito di soldati rinsecchiti dimenticati dal sole dopo la parata.
Volevo lasciarmi alle spalle il rumore del mare e raggiungere la sicurezza
del concerto di cicale che sentivo davanti a me. Dovevo trovare un posto
dove rifugiarmi e riposarmi per poi riprendere il viaggio verso quel
futuro che era l'unica scelta ad una vita che, nella mia terra di origine,
vita non era. Sentivo un desiderio disperato di sedermi al riparo, magari
sull'erba asciutta, senza più sentire nelle ossa e nei muscoli
il rollio del gommone che aveva accompagnato le interminabili ore del
mio viaggio.
Avevo quasi raggiunto una macchia di cespugli, quando uno sciabolare
di luce mi colpì, bloccandomi come un animale selvatico sorpreso
sulla strada dai fari di un'automobile. Alzai le mani sulla testa e
chiusi gli occhi al contatto della luce sempre più brillante.
Poi, due mani mi afferrarono le braccia sospingendomi verso un boschetto
che, superato, rivelò una stradina bianca di ciottoli con una
camionetta ferma.
Qualcuno mi perquisì, ma con cortesia. Vedevo le sue mani coperte
di guanti, mentre qualcun altro mi poggiava una coperta sulle spalle.
Mi coprì anche la testa bagnata dandomi la sensazione di aver
già trovato un tetto, un rifugio. Mi era rimasta la stanchezza,
ma nel contempo era svanita la paura e mi sentivo rassicurato.
Non capivo la lingua e nemmeno capivo se i due militari che mi avevano
fermato parlassero tra loro o con me, d'altronde, anche se avessi cercato
di rispondere non avevo nemmeno la saliva sufficiente per farlo. Mi
obbligarono con ferma gentilezza a salire sul retro della camionetta
dove dai sedili anteriori un'altra mano mi offrì una bottiglia
di plastica piena d'acqua. Era fresca. Era buona. Era meravigliosa.
Fu in quel momento che mi svegliai comodamente seduto in poltrona, dove
mi ero appisolato guardando la televisione. La cena troppo abbondante
sullo stomaco, una sensazione di brividi di freddo e tanta sete. L'apparecchio
era ancora acceso e mostrava un telegiornale della notte.
Mentre accanto alla tavola mi dissetavo da un bicchiere colmo di acqua
frizzante e fresca, mi vidi sullo schermo: ero spettinato, la barba
lunga, lo sguardo stravolto di stanchezza e indossavo un logoro paio
di jeans e un maglione tutto sformato. Sulle spalle avevo una coperta
militare grigia e ai fianchi due Carabinieri che mi reggevano in piedi.
Sorridevo come un ebete alla telecamera del giornalista. Sorridevo e
mi moltiplicavo in altre decine e decine di volti come il mio, in fila
su di una spiaggia appena rischiarata dalle prime luci dell'alba. Eravamo
arrivati vivi.
paolo
carbonaio |