Hathor
di
Humbert du Charbon
Ugo
Mursia Editore
ISBN 88-425-2325-9
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L'inizio.....
La
navigazione era monotona.
A dritta, c'era la costa bassa e sabbiosa del Sudan che scorreva lentamente,
mentre il mare era calmo come la pozzanghera lasciata da un temporale
estivo. Alla velocità di sei nodi il mondo pareva assopito. Il
vecchio motore arrugginito, con il suo ritmico borbottio simile al russare
di un drago, era l'unico rumore presente in tutto il Mar Rosso. L'assenza
di vento ed il mare liscio, permettevano di mantenere facilmente la
prora e la barca sembrava viva nell'infinito incantato che mi circondava.
L'anziano legno avanzava a fatica, increspando appena la lucida superficie
dell'acqua e lasciando di poppa una timida traccia che subito scompariva,
come al passaggio di un fantasma. A bordo la vita si era assopita, prosciugata
dal caldo di quella giornata di luglio, sotto il cielo terso. La vela,
del colore cupo del vino, era lisa e sporca e pendeva avvilita e immobile
alla poca aria calda creata dal lento procedere della barca.
Mi trovavo a poppa, al timone, con il braccio disteso sulla barra che
tenevo senza sforzo. Avevo caldo, troppo caldo. Maledettamente caldo.
Il sole alto sull'orizzonte, aveva ormai superato lo zenit e lentamente
si accingeva a calare per nascondersi tra le sabbie desolate e ardenti
delle estreme propaggini sudorientali del Sahara. L'assenza assoluta
di nuvole e di qualsiasi uccello marino rendeva il cielo piatto e uniforme.
Non facevo una bella figura con la barba di una settimana e i folti
baffi che chiamavano disperatamente le cure di un paio di forbici. I
pantaloni kaki che indossavo erano logori e la maglietta aveva scordato
da tempo il suo colore originale, sembrava una sola macchia di sudore
essiccato al sole. Con un'abbronzatura che avrebbe fatto invidia ai
turisti della spiaggia di Malindi, avevo sulla pelle secca l'infarinatura
del sale dimenticato dal mare. I capelli sporchi mi spuntavano da sotto
un berretto da ufficiale di marina che da una vita aveva perso i suoi
fregi dorati.
Tenevo gli occhi socchiusi per difenderli dalla luce abbagliante, mentre
cercavo di mantenere la rotta con l'aiuto di una vecchia bussola piena
d'ammaccature. Il vetro segnato da mille graffi, permetteva appena di
leggere la rosa dei venti immersa in un liquido pieno di bolle, come
se fosse stata in una bottiglietta di Perrier. A fianco, al riparo della
mia ombra, riposava il resto d'una lattina di birra calda. Non osavo
terminarla, al pensiero che era l'ultima rimasta, poi sarei stato costretto
a dissetarmi con l'acqua calda e salmastra che bevevano i miei compagni.
Con lo sguardo perso verso un punto invisibile dell'orizzonte, ripensavo
agli avvenimenti che mi avevano portato a comandare un vecchio dhow
egiziano. Una barca già per mare quando Maometto aveva iniziato
a fare il Profeta.
Ai piedi dell'albero, distesi sui cavi avvolti delle drizze, altri due
uomini riposavano sotto la scarsa ombra creata dalla grande vela. Era
il mio equipaggio. Uno era di corporatura enorme, esageratamente muscolosa.
Alto un buon metro e novanta, aveva una pancia da fare invidia ad un
birraio di Francoforte, la testa completamente rasata e un viso dall'espressione
bonacciona e un po' tonta. L'altro era mingherlino, con appena un metro
e sessanta di statura, anche lui con i capelli rasati. Aveva un naso
magro e adunco, il mento sfuggente e due occhi piccoli, normalmente
socchiusi. Uno sguardo astuto celato sotto una maschera di flemmatica
indifferenza. Entrambi vestivano solamente due paia di logori pantaloni
corti, ultime rimanenze di tela kaki di un'anonima divisa militare.
A completare l'equipaggio c'era un cane grigio, un bastardo del quale
si faticavano a riconoscere le origini. Grosso, della taglia di un cane
da pastore, con il pelo lungo e arruffato. Se ne stava sdraiato a prora,
all'ombra dell'argano dell'ancora, indifferente alle macchie di grasso
che quest'ultimo gli lasciava sulla pelliccia. Passava la maggior parte
del tempo sdraiato scompostamente nei rari posti ombrosi della coperta,
come un logoro tappeto che nessuno aveva il coraggio di gettare e si
guardava bene dal calpestare. Aveva sempre qualche pulce che lo tormentava,
ma era così pigro che alla seconda grattata rinunciava e, dopo
un sospiro di sopportazione, cambiava solamente posizione, oppure si
rotolava un paio di volte sulla coperta di legno. Se non riusciva ad
eliminare le pulci, poteva almeno rendere scomoda anche la loro la vita.
Ora, solamente i suoi occhi acquosi color del mogano indicavano che
quel mucchio di pelo era vivo; quando seguivano con indolenza ogni nostro
movimento, oppure avvertivano anche il minimo scricchiolio dello scafo.
Mi
trovavo in una delle zone più calde della terra, avevo da poco
superato il Tropico del Cancro e la temperatura aveva raggiunto i quarantotto
gradi all'ombra. La coperta di legno, come la piastra d'un forno, faceva
evaporare all'istante, con uno sfrigolio, l'acqua di mare del secchio
che usavamo come doccia rinfrescante. Non riuscivo ad immaginare quanto
caldo ci fosse sulla terraferma che vedevo attraverso il tremolio dell'aria.
Doveva essere un inferno peggiore di quello nel quale mi stavo cucinando.
Ancora una notte di navigazione e sarei giunto Porto Sudan. Era la destinazione
del mio primo viaggio d'affari, l'inizio d'una vita diversa da quella
che avevo appena abbandonata, anche se, come la precedente, si svolgeva
sul mare. Quante volte avevo cambiato vita e forse ancora quante altre
volte avrei dovuto o voluto farlo, era un pensiero nel quale spesso
mi perdevo a fantasticare.
Ognuno ha diritto alle proprie illusioni e così, forte di questa
convinzione, mi rifiutavo di credere che il destino mi fosse imposto,
ma, caparbiamente, cercavo di modificarlo secondo i miei progetti, progetti
che poi si rivelavano soltanto dei sogni. Se è vero che il carattere
di un uomo è il suo destino, come aveva detto Eraclito, evidentemente
il mio destino doveva faticare parecchio per corrispondere a quello
che si era dimostrato un difficile carattere. Beati coloro che lo credono
una predisposizione della Provvidenza. Il Fato per me, forte di un'illusoria
esperienza di quasi vent'anni di vagabondaggio, non doveva essere così
determinato da non subire un carattere testardo come il mio. Per non
parlare poi dell'assoluta intolleranza verso qualsiasi imposizione che
intendesse interferire sulla mia sacrosanta libertà.
Con il passare degli anni, mi ero convinto che mentre il resto dell'umanità
aveva come proposito di navigare il fiume della vita verso la foce della
certezza, io mi ritrovavo oltre la metà del percorso con la prora
inesorabilmente puntata verso l'incertezza e avevo ormai superato il
fatidico punto di non ritorno. Era come se nella mia vita non fosse
prevista l'età di andare in disarmo, oppure che questo momento
fosse talmente lontano, da essere ancora inaccettabile. Ma una cosa
dovevo ammettere in coscienza, che le avventure, o meglio le disavventure,
me le ero sempre cercate.
La
barca era un vecchio dhow di diciannove metri, probabilmente costruito
in Egitto, da qualche artigiano vissuto almeno un paio di generazioni
prima della mia. Era armato con un albero appruato e una grande vela
latina e aveva un vecchio e ansimante motore Diesel di modesta potenza
tenuto assieme da metri e metri di filo di ferro arrugginito. A vederlo
così, mal ridotto e preda di una continua tosse secca e stizzosa,
faceva quasi tenerezza. C'era da chiedersi se il suo precario funzionamento
sarebbe durato ancora, almeno fino al prossimo approdo, dove avrebbe
potuto esalare l'ultimo respiro in santa pace. Lo scafo costruito in
legno, era abbastanza sano a voler essere ottimisti, anche se da anni
nessuno si era curato di ravvivare i vecchi colori, rosso e azzurro,
che l'avevano caratterizzato. Internamente era suddiviso in una stretta
cabina munita di tre cuccette, un angusto locale motori e una stiva
abbastanza capiente. L'altezza interna, mi aveva sempre sconcertato
perché a mio avviso subiva dei repentini mutamenti e nonostante
mi regolassi secondo i bagli, abbassando la testa sotto di loro ed alzandola
sicuro negli spazi intermedi, mi capitava spesso di prendere delle dolorose
capocciate, come se i bagli si spostassero misteriosamente di quel tanto
che, rialzando la testa, me ne trovavo sempre uno di sopra. Una specie
di sadica persecuzione nei miei riguardi. In ogni caso mi ci ero ormai
abituato e poi avevo la testa dura.
La cucina, se così si poteva chiamarla, era in coperta tra la
stiva e l'entrata della cabina. Si trattava di un ripiano con sopra
un fornello a petrolio a due fiamme, riparato al vento da tre lati di
leggere sponde di legno. Considerando il normale menù di bordo
era già un lusso rispetto alle stoviglie di bordo. Un paio di
pignatte ammaccate, quattro piatti d'alluminio e un servizio di posate
scartate in qualche mensa militare. Per bere tre pentolini smaltati
e alcuni bicchieri di vetro con i bordi sbrecciati rubati in un bar.
Il vitto era composto di riso, carne d'origine non specificata che era
venduta come pecora o montone, pesce normalmente secco, raramente fresco,
datteri e banane. Il tutto spesso freddo e a volte mescolato assieme.
Un cibo che avrebbe dovuto almeno saziare dato che era molto lontano
dall'essere appetibile.
I servizi igienici erano caratteristici, un vecchio fusto di nafta della
Oil Company, senza coperchio e con un buco eccentrico sul fondo. Era
fissato esternamente allo specchio di poppa e in caso di necessità
ci si infilava dentro, rimanendo fuori solamente con la testa. Folcloristico
ma pratico, oltre che panoramico. Era stata un'idea rubata osservando
un altro dhow, un piccolo lusso che mi ero preso visto che, oltre alla
mia innata pudicizia, ritenevo questo un sistema migliore di quello
di rimanere appesi fuori bordo tenendosi con un mano ad una sartia.
Meno faticoso e privo del pericolo di cadere fuori bordo. Ero molto
scettico riguardo alla prontezza con la quale i miei compagni sarebbero
corsi a recuperarmi e poi mi terrorizzava diventare il gradito pranzo
per qualche pescecane.
Raramente si utilizzavano le cuccette sottocoperta, il caldo era soffocante
e l'odore insopportabile, per non parlare della moltitudine di animaletti
che, padroni assoluti, vi albergavano in piena libertà. Si dormiva
in coperta, avvolti in qualche vecchia tela logora e ci si svegliava
spesso sepolti sotto la sabbia rossa portata dal Ghibli.
Il vecchio legno aveva navigato per una vita da un porto all'altro del
Mar Rosso. Dal Golfo di Aqaba a quello di Aden, al Golfo Persico. Aveva
trasportato di tutto, datteri, caffè, pelli, capre e, certamente,
merci di contrabbando o qualche passeggero di poche pretese che voleva
mantenere l'incognito. Avevo acquistato il dhow nel porto vecchio di
Suez. Il suo proprietario precedente era morto, forse dalla disperazione,
vista la barca o causa la cucina di bordo, e la vedova ed i figli, assillati
dai creditori, erano stati costretti a venderlo. Acquistando la barca
mi ero ritrovato proprietario anche dell'equipaggio composto dai due
uomini e dal cane; erano compresi nell'affare.
Ero
diventato armatore e comandante, in una lurida mescita del quartiere
commerciale di Suez, a pochi passi dal bazar. Trattai l'acquisto stando
seduto ad un tavolino tondo e appiccicoso, sforzandomi di bere dell'insipido
the da un opaco bicchiere di vetro che reggevo nella mano destra, mentre
con la sinistra allontanavo le mosche dal viso. Tarik era il nome che
mi aveva dato l'intermediario, un ometto egiziano vestito con una giacca
blu e con un paio di pantaloni chiari, sformati e troppo larghi, e Peter
Perkin quello con il quale mi ero presentato io. Prima di accomodarci
e discutere le condizioni di vendita in quello schifo di bar, Tarik,
uomo accondiscendente, mi aveva anche permesso di ispezionare la barca.
Era ormeggiata alla fine di una banchina deserta, ricoperta di immondizie.
Nello sporco generale si faceva fatica a distinguerla. Per lui visitarla
sarebbe stata fatica inutile, tanto che, vederla da lontano e apprendere
dalla sua voce tutte le meraviglie che la caratterizzavano, erano motivi
più che sufficienti perché io mi gettassi a pesce per
non perdere il migliore affare che mai mi potesse capitare nella vita.
Costretto dalla mia testardaggine, figurarsi che pretendevo a tutti
i costi di visitare lo scafo, guardandomi come un povero miscredente
che mettesse in dubbio la saggezza di Maometto e ostentando una fiducia
incrollabile nelle qualità nautiche del dhow, Tarik mi accompagnò
a bordo per ammirarlo e così constatare che lui era un uomo serio
e un venditore professionalmente ineccepibile. Piantato a gambe larghe
e mani sui fianchi elogiava quel misero legno elencandone gli infiniti
pregi. Pregi che non riuscivo proprio a vedere. Si mise anche a saltellare
come un canguro sulla coperta per provarmi la sua solidità e
poi, costringendomi a scendere di sotto, mi fece ammirare una massa
informe di ruggine che, sul suo onore, dichiarò essere uno splendido
motore Diesel appena revisionato. La stiva molto capiente e per finire
la lussuosa cabina per l'equipaggio. Un loculo maleodorante che mi fece
pensare alla cuccia di un cane sfortunato.
Ritornati in coperta mi misi ad ispezionare l'attrezzatura, mentre Tarik,
sfinito dal caldo che gravava sotto coperta, si era messo a sedere sulla
stiva asciugandosi il collo con una specie di tovagliolo variopinto
come quelli delle trattorie di campagna. L'albero pencolava verso prua,
trattenuto dalle sartie e dagli stralli logori, la vela raccolta sulla
sua asta era così sporca che faceva ribrezzo toccarla. Per finire,
a prua c'era un argano a mano ricoperto da una crosta indurita di grasso,
mentre l'ancora Ammiragliato con il ceppo fisso, che sporgeva fuori
bordo, era incrostata di fango e alghe secche.
La barca era allucinante e probabilmente sarebbe affondata con un solo
starnuto. Era un pezzo da museo, ma aveva il suo fascino e, se fosse
stata in condizioni migliori, sarebbe stata una barca di tutto rispetto.
Aveva uno scafo slanciato e poco panciuto, con la prora affilata che
terminava con un robusto dritto rivolto al cielo e la poppa larga e
dritta dalla quale sporgeva la grande pala del timone. Questa era vincolata
da grossi agugliotti e da due spezzoni di catena, ora completamente
arrugginiti. Sulla miccia del timone c'era la barra, lunga almeno due
metri, che si protendeva dritta verso prora. Lo scafo aveva delle falchette
spesse, alte almeno una sessantina di centimetri che ben riparavano
la coperta dai colpi di mare. Anche le mastre della stiva erano sufficientemente
alte e così quelle che sostenevano il boccaporto d'accesso alla
cabina. Un tipico dhow del Mar Rosso, utilizzato da secoli per i commerci
locali. Sapevo che questi legni, spesso più grandi e armati anche
di mezzana, erano in grado di navigare in tutto l'Oceano Indiano, arrivando
anche sulle coste dell'India ed in Sud Africa. Un vero peccato che fosse
ridotta così, ero tentato di acquistarla, ma in quello stato
sarebbe stato come gettare in mare i pochi denari che possedevo. A malincuore
rinunciai.
Sulla banchina, poco distanti da noi, stavano seduti, con le gambe penzoloni,
due arabi in compagnia di un cane e ci stavano osservando, seppi poi
che era l'equipaggio del dhow. Il più piccolo dei due mi sorrise,
mentre Tarik insisteva a riempirmi la testa di parole.
Deluso, decisi di andarmene, non sapevo nemmeno quanti soldi volesse
per la barca. Avevo poco denaro e, ripensandoci, forse sarei anche riuscito
a comperarla, ma la voglia di suicidarmi in mare con un simile impasto
di legno marcio e chiodi arrugginiti, ancora non mi era venuta. Saltai
sulla banchina e andandomene passai vicino al gruppetto di osservatori
ed il piccoletto mi parlò in inglese, sottovoce, tanto che lo
udii appena:
<<Le barche sono come le donne>> disse <<spesso le
brutte hanno più carattere delle belle e si rivelano migliori
di quello che sembrano.>>
Un filosofo, pensai e lo lasciai terminare.
<<Contratti eccellenza, ma non offra più di duecento dollari,
non ne vale di più.>>
Le sue parole mi trattennero dall'allontanarmi subito e rallentai l'andatura
permettendo così a Tarik di raggiungermi e trainarmi in un locale
per continuare la trattativa. Dopo tutto non avevamo ancora parlato
del prezzo. Fu così che ci ritrovammo seduti al bar, sede di
un congresso internazionale di mosche.
<<Che Allàh mi perdoni se dico il falso, >> gemette
l'egiziano, tenendo lo sguardo basso <<ma una barca così
a posto, praticamente nuova, non può valere meno di mille e duecento
dollari americani e io le chiedo solamente la metà, settecentocinquanta
dollari, capitano.>>
Quell'uomo, al pari delle sue conoscenze nautiche, aveva un concetto
tutto suo dell'aritmetica. Lasciai perdere, non era il tipo con il quale
imbarcarsi in argomenti matematici.
<<Ho detto che cerco una barca e quella me la chiami barca? Sta
a galla solamente perché è appesa ai cavi d'ormeggio.
Niente da fare, lasciamo perdere.>> risposi con un tono duro e
deciso, tanto per fargli capire che ero un tipo difficile e che non
si facesse troppe illusioni.
Da perfetto attore, si fece umile, guardandomi negli occhi con ammirazione
e rispetto.
<<Ma sua eccellenza ci ripensi, è una vera occasione, un
gioiello creato dalle mani di veri artigiani.>>
<<Si, quelli del faraone>> sbottai ironico <<meno
male che Dio ha aperto le acque del Mar Rosso perché se Mosè
l'avesse adoperata, altro che fuga. Sarebbe stata una strage.>>
Cominciavo a divertirmi osservando la sua faccia che cambiava espressione
a seconda del tono della mia voce, da duro a sarcastico. Sembrava che
sudasse le fatidiche sette camicie a tentare di convincermi, ma in realtà
era per lui un rito in cui era sicuramente il più esperto.
<<Cinquecento dollari e lei diventa comandante di uno splendido
dhow. Pensi alla povera vedova e ai suoi orfani che muoiono di fame.
Solamente cinquecento dollari ed è subito sua.>> Ora stava
giocando la carta della pietà, aveva gli occhi umidi e la faccia
sofferente.
<<Basta, finiamola qui. Ti offro cento dollari>> dissi per
tagliare corto <<è più di quello che vale il poco
legno sano che ha.>>
<<Cento dollari?>> singhiozzò <<Ma cosa sono
cento dollari per un Comandante come lei. Che Maometto la perdoni, ma
lei eccellenza non ha cuore? Come farò a dirlo alla povera vedova
e agli orfani.>> mi osservò attentamente negli occhi e
sparò l'offerta che avrebbe, secondo lui, messo fine alla trattativa
<<Facciamo trecento e stringiamoci la mano.>>
Sembrava che dopo tutto mi facesse un enorme piacere ad accontentarsi
di una cifra così modesta. Quasi dovessi essergliene riconoscente.
Si appoggiò soddisfatto allo schienale della sedia di legno e
mi tese la mano aperta, da stringere.
<<Cento venticinque dollari, non un centesimo di più.>>
ribattei secco, ignorando la mano tesa.
<<Duecentocinquanta e l'eterna riconoscenza dei figli e della
madre vedova.>> replicò lui, dopo un lungo sospiro, tanto
per sottolineare che era stremato dalla mia testardaggine.
<<Centocinquanta perché mi sono stancato, il the fa schifo
e devo essermi mangiato anche una mosca.>> Incrociai le braccia
assumendo la posa di chi considerava la questione definitivamente chiusa.
<<Duecento dollari eccellenza. E' l'ultimo prezzo e sarò
costretto a consolare anche la vedova che è grassa e vecchia.>>
fece un'espressione schifata per rafforzare il suo giudizio sulle qualità
estetiche della donna e farmi notare il suo spirito di sacrificio.
<<Centonovanta e la prendo così, come sta e giace.>>
proposi, tanto per finirla e avere l'ultima parola. <<Centonovanta
dollaroni in contanti e salutami la vedova e gli orfani.>>
Tarik che, infervorato nella discussione, stava nuovamente sventolando
il tovagliolo per asciugarsi la testa sudata, si fermò di colpo
e mi fece un sorriso radioso a denti gialli. Avevo vinto, o perlomeno
me lo fece credere.
<<Capitano sono veramente felice.>> e doveva esserlo veramente.
<<Ora lei è diventato proprietario del più bel dhow
del Mar Rosso. Che Allàh il Misericordioso l'accompagni e le
riempia la stiva di merci pregiate.>>
Maledetto ipocrita pensai. Hai ottenuto il suo giusto valore, ma ti
sei battuto bene e dopo tutto era meno del prezzo che mi aveva suggerito
il piccoletto sul molo. Ci scambiammo una stretta di mano e gli consegnai
i soldi appoggiandoli sul piano del tavolo, con gran disappunto delle
mosche che vi stavano pascolando. Tarik li coprì immediatamente
con la mano e afferrate le banconote le infilò subito in una
tasca interna della giacca. In cambio del denaro ricevetti un involto
di tela catramata contenente i documenti della barca. Le carte erano
ormai macere per l'umidità e la scrittura araba che vi era stata
stampata, completamente sbiadita e illeggibile, sarebbe stato inutile
protestare, l'affare mi conveniva. Quanto prima lasciavo Suez tanto
meglio sarebbe stato. Al termine l'uomo mi gratificò di un altro
dei suoi tremendi sorrisi. Era così felice che per brindare all'affare
si versò il the sui pantaloni già pieni di macchie.
Allàh avrebbe dovuto usare tutta la sua misericordia e farsene
prestare altra da Buddha e dal Dio dei cristiani pensai, ricordando
la sensazione di precarietà e di miseria che avevo provato salendo
a bordo del dhow per ispezionarlo.
<<Grazie per l'augurio, che Allàh ascolti le tue parole.
Ora dovrò mettermi alla ricerca di un carico e di un equipaggio.
Se dovessi trovarmene, ti sarò ancora più grato.>>
<<Lo troverò, stia tranquillo che lo troverò.>>
Teneva la mano premuta sul petto, sulla tasca con i soldi. Mi chiesi
quanti ne avrebbe dati alla povera vedova e agli orfani, probabilmente
meno della metà. <<L'equipaggio, comunque, è già
a bordo, è sempre lo stesso.>> e aggiunse <<Vedrà
che ne sarà soddisfatto. Sono veri marinai.>>
Non fu sottoscritto alcun contratto, tutto avvenne sulla parola. Alla
consegna della barca fu tolta la bandiera egiziana e issata una logora
e sbiadita bandiera somala. Il nome originario della barca era stato
cancellato, o meglio grattato via e sopra stesa una densa mano di vernice
nera.
A bordo ritrovai i due arabi con il cane e mi presentai come il nuovo
proprietario, poi rivolto al piccoletto aggiunsi: <<Centonovanta
dollari. Va bene?>>
<<O.K. padrone, non se ne pentirà. Parola di Abdul.>>
Stringendogli la mano gli lasciai nel palmo una banconota piegata da
dieci dollari e lui per ringraziarmi piegò dignitosamente il
capo, poi la consegnò al compagno.
continua............................