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Hathor
Mar Rosso
Missione
in India

Oceano
di
Humbert du Charbon

Ugo Mursia Editore

ISBN 88-425-2752-1


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Quando il motore si spense non ce ne accorgemmo, perché eravamo assordati dal frastuono della tempesta. Solamente l'improvviso alzarsi della prora ed il repentino abbattimento dello scafo verso dritta ci annunciò che la barca non era più governabile. Malik scuoteva sconsolato la testa, mentre Abdul premeva inutilmente il pulsante d'accensione del motore. Il dhow si stava ponendo al traverso del mare ed uno spaventoso rollio sembrava volerlo capovolgere da un momento all'altro.
<<Chiudiamoci dentro! La barca rimarrà a galla, è solida!>>. Urlò con la sua possente voce Malik, superando appena il sibilare del vento.
L'Egiziano non attese la nostra approvazione. Si liberò della cima che lo tratteneva, circondò il cane con il braccio sollevandolo e si gettò sul boccaporto della cabina. Aveva ragione. Restare all'aperto a farsi maltrattare dalla tempesta non sarebbe servito a molto. La Hathor era ormai preda del ciclone e non avremmo potuto fare nulla per cambiare la situazione. Le nostre vite erano inesorabilmente legate alla sua.
Ci liberammo anche noi e lo seguimmo afferrandoci l'uno all'altro. Il tragitto era brevissimo ma sembrò durare un'eternità. Mentre attendevamo che Malik sganciasse le sicure del portello, un'onda mostruosa stava per precipitarci addosso e già m'immaginavo strappato da bordo assieme ai miei compagni per finire annegato, quando il gigante aprì fulmineo il boccaporto, infilò il cane dentro e ci afferrò entrambi per le braccia scaraventandoci da basso. Non eravamo nemmeno giunti alla base della scaletta, che anche lui era entrato e si era chiuso il boccaporto sulla testa agganciandolo immediatamente dall'interno. Una cascata d'acqua ci accompagnò scrosciando sugli scalini.
Sotto coperta ci sistemammo sul pagliolo, con le schiene appoggiate alle cuccette ed i piedi puntellati alla paratia. Alì, completamente fradicio, si era accoccolato al mio fianco infilandomi il muso sotto il braccio per cercare protezione. Lo consolai con qualche carezza ed il suo contatto mi diede la sensazione di non essere solo. Priva di oblò, la cabina era buia ed opprimente e dopo un po' Malik afferrò la lampada a petrolio che oscillava appesa e mi chiese di passargli il mio accendisigari. Quando prese fuoco lo stoppino, una calda luce rossastra invase il nostro rifugio mostrandomi le facce stravolte dei miei compagni.
<<Con un po' di luce è meglio>>, dissi forte per superare il rumore della tempesta. <<Avete delle facce da fare spavento. Coraggio! Io credo che abbia ragione Malik: il dhow resisterà e ce la caveremo.>>
<<Che Allàh vi ascolti!>>, sospirò Abdul regalandomi un sorriso stentato.
Il gigante guardava imbambolato la lampada che danzava.
<<Se la Hathor riesce a superare questa fase del ciclone, nell'occhio sarà meglio.>> Stavo solamente cercando di rincuorarli. <<Qui ci vorrebbe il bastone di Mosè per separare le acque!>>
<<Taci miscredente!>>, mi rimproverò Abdul bonariamente, sensibile com'era a tutto ciò che implicava la religione. <<Allàh ti vede e ti sente e sarà Lui a decidere di noi. Delle nostre miserevoli vite. Come Sua è la potenza che ora ci circonda. Suo il mare ed il cielo e suo questo zâubaa, il ciclone che tu fingi di non temere.>>
<<E' possibile che con te non si possa mai scherzare?>>, mi lamentai.
<<Ed è possibile che tu non capisca quando mi diverta ammonirti ogni volta che posso>>, ribatté scuotendo la testa. <<Certo che qui ci vorrebbe il bastone di Mosè, amico mio. Sarebbe la salvezza certa.>>
<<Perché non la smettete voi due?>>, tuonò Malik. <<Siete sempre lì a discutere come una coppia di vecchi fastidiosi!>>
Dall'esterno, un Titano tempestava di pugni lo scafo del dhow e nello stesso tempo un suo compagno si divertiva a sballottarlo da una parte all'altra dell'Oceano Indiano. Eravamo un giocattolo in mano a due ragazzini pestiferi.

Era trascorsa più di un'ora, quando vidi Abdul appoggiare l'orecchio alla paratia che divideva la cabina dalla stiva.
<<Vado a controllare. Ho sentito uno strano rumore!>>, urlò, tentando di sollevarsi in piedi mentre il dhow si abbatteva violentemente sulla dritta.
Nella stiva tenevamo le provviste di bordo, le taniche di riserva dell'acqua e della nafta e varia attrezzatura sempre utile a bordo. Era tutto ben rizzato e fissato con cavi, ma dopo lo sballottamento subito, qualcosa si sarebbe potuta liberare e danneggiare lo scafo. Una falla avrebbe peggiorato ancora la situazione, o meglio, avrebbe concluso drasticamente quella crociera.
<<Vengo anch'io!>>, proposi, insofferente all'inattività che mi obbligava la posizione scomoda.
Passai il cane a Malik e afferrai la torcia elettrica che tenevo agganciata a fianco della cuccetta. Muovendoci carponi raggiungemmo il portello del passo d'uomo che divideva la cabina dalla stiva, dove Abdul iniziò a svitare i fermi che lo tenevano chiuso ermeticamente. Il baccano che proveniva dall'esterno era impressionante, ma anche dalla stiva si percepivano dei rumori, non appena il passaggio fu aperto. Scricchiolii e strascicamenti riempivano il buio dell'ambiente. Ruotai il raggio della lampada all'interno illuminandolo di una luce spettrale.
<<C'è qualche maledetto affare che rotola!>>, commentai, tentando di raggiungere con il fascio della lampada anche i punti più lontani.
Tentavo di individuare la fonte del rumore, ma senza riuscirci. Entrai e mi alzai in piedi, seguito da Abdul.
Per uno sbandamento eccezionale Abdul perse l'equilibrio e mi finì addosso con il risultato di sbilanciarmi e farmi cadere in avanti. Mi trovai immerso nell'acqua con tutta la testa e la lampada mi cadde di mano.
Il mio amico mi afferrò per i capelli sollevandomi.
<<Tutto bene?>>, domandò mentre recuperava la lampada.
Avevo la bocca piena di un liquido denso, salato misto a nafta, un sapore disgustoso e ne avevo bevuto almeno una pinta. Abdul mi sorreggeva ed io tossivo e sputavo a più non posso.
<<Qui c'è almeno mezzo metro d'acqua!>>, riuscii a dire a fatica.
<<Abbiamo una perdita da qualche parte>>, commentò calmo il mio compagno, come se la presenza di tanta acqua potesse avere una qualsiasi altra spiegazione. <<Cerca di tenere fuori la testa da solo. Vado a controllare.>>
Mi puntellai sulle braccia, avevo lo stomaco che tentava disperatamente di uscire e già lo sentivo premere nella gola.
Con gli occhi e la gola infiammati per l'acqua sporca e i colpi di tosse, cercai di individuare il mio compagno e notai il chiarore della torcia a pochi metri, vicino al fianco di dritta. Procedendo gattoni e sguazzando nell'acqua mi diressi verso la luce. Abdul stava illuminando una tavola del fasciame, nella quale s'era conficcato per un buon tratto lo spigolo aguzzo della cassa metallica degli attrezzi per riparare il motore. Taniche, scatoloni di cibo e di bibite la premevano bloccandola. Le drizze che trattenevano il tutto avevano ceduto e la stiva era un campo di battaglia. Dallo squarcio tappato dalla cassa filtrava l'acqua del mare. Non era una cascata, ma era pur sempre troppa. Abdul illuminò meglio il carico accatastato sulla cassa.
<<Se questa roba si sposta e la cassa libera la falla imbarcheremo tutto l'oceano!>> Ispezionò nuovamente l'intera stiva. <<Finora non è entrata troppa acqua perché la falla è all'altezza della linea di galleggiamento.>>
<<Bisognerebbe turarla senza rimuovere la cassa, anzi assicurandola meglio>>, dissi preoccupato che la falla si aprisse completamente. <<Ha fatto un buco largo come un piatto.>>
Saggiai con la mano il fasciame attorno alla cassa. Sembrava solido ed i comenti tra i corsi erano ancora integri. Aveva ceduto solamente la parte colpita dallo spigolo, attorno al quale l'acqua si riversava all'interno.
L'arrivo improvviso di una tanica di nafta ci prese di sorpresa. Abdul l'afferrò al volo.
<<E' completamente vuota>>, disse, mentre la tratteneva.
<<La nafta l'ho bevuta io, ma avrei preferito che fosse stata piena di birra.>>
Ci spogliammo delle camicie e le spingemmo tra i bordi del fasciame ferito. Era tutto ciò che avevamo a portata di mano.
<<Dobbiamo puntellare meglio la cassa.>> Abdul premeva con le mani le camicie zuppe d'acqua.
<<Vado a prendere delle lenzuola e a chiamare Malik.>> E pensando alla pompa di sentina che era in coperta vicino allo spezzone dell'albero, aggiunsi: <<Dovrò anche sgottare l'acqua imbarcata per alleggerire il dhow.>>
<<Ma dovrai uscire!>>
<<Non c'è scelta. Malik è forte e ti aiuterà meglio di me. Non temere, starò attento. Tu rimani qui, conosco la strada.>> Gli battei la mano sulla spalla.
<<Che Allàh, l'Onnipotente, vegli su di te!>>, borbottò, prima di infilarsi la lampada tra i denti per illuminare il punto della falla.
Mi diressi verso il passo d'uomo lasciandolo da solo, mentre la luce della lampada gli illuminava la punta del naso dandogli un'espressione grottesca.
La situazione era drammatica. In cabina informai Malik e mi accorsi con sgomento che anche lì c'era acqua sufficiente a sommergere Alì fino alle orecchie, tracimata dalla stiva. Afferrai le lenzuola dalle cuccette e le consegnai all'Egiziano che velocissimo superò il passo d'uomo per raggiungere il compagno.
<<Vado a pompare fuori quest'acqua!>>, gli urlai prima che sparisse nella stiva.
Non disse nulla e guardandomi angosciato mi afferrò il braccio. Mi liberai e raggiunta la scaletta vidi Alì che si era rifugiato su di una cuccetta per rimanere all'asciutto. Pure lui aveva l'espressione disgustata di chi ha bevuto acqua di mare e nafta. Lo lasciai con una carezza sul muso sporco.

Sollevato appena il boccaporto, sbirciai fuori: aveva smesso di piovere ed il vento sembrava meno impetuoso. Il mare, invece, era un castigo di Dio. Le onde alte come catene montuose, avevano dei picchi aguzzi che s'incrociavano tra loro in una danza sfrenata degna di un sabba infernale. L'oceano era impazzito ed il nostro dhow saltava disperatamente con delle paurose abbattute sul fianco, alternate ad un beccheggio che a momenti pareva lo costringesse a porsi ritto con la prora o la poppa rivolte al cielo. La coltre di nubi nere si stava spezzando e si vedeva l'azzurro del cielo ed attraverso gli squarci il sole colpiva il mare infuriato con i suoi raggi simili a spade di luce. La natura stava dando uno spettacolo da mozzare il fiato, ma non avevo l'animo e nemmeno il tempo per ammirare lo scenario. Dovevo uscire e raggiungere la pompa di sentina.
Esitante, lasciai il riparo e sgusciai fuori, investito da una raffica in grado di strapparmi baffi e capelli. Afferrai il tientibene e richiusi il boccaporto rimanendo solo, disperatamente solo. Presi uno dei cavi che avevamo usato per legarci, me lo assicurai attorno ai fianchi e raggiunsi lo spezzone dell'albero artigliandomi ad ogni possibile appiglio per evitare di essere spazzato via come una foglia secca. Annodato un capo della cima alla base dello spezzone ed impugnata la leva della pompa a due mani, iniziai a pompare freneticamente. Costretto a rimanere in ginocchio mentre il cavo mi segava in due, ero continuamente sommerso dai colpi di mare che spazzavano la coperta, però la pompa funzionava e dal bocchettone di scarico cominciò ad uscire un getto di liquido sporco.
Pompavo senza un attimo di tregua, con la bocca piena d'acqua, gli occhi in fiamme ed i fianchi martoriati. Sapevo di non poter mollare: i miei compagni erano di sotto a tamponare la falla ed io dovevo compensare l'acqua che filtrava nello scafo e, se possibile, vuotarlo del tutto.

Il tempo sembrava annullato. Ore, minuti e secondi si lasciavano trascinare via dal vento che li rapiva avvolgendoli con le sue raffiche e assordandoli con i suoi ululati. Il mondo s'era ridotto al ritmico movimento della leva che azionavo senza un momento di respiro e l'affanno mi serrava la gola. "Ancora! Ancora! Ancora!" era la parola che mi martellava nel cervello allo stesso ritmo della pompa. Mille, diecimila, centomila volte.
Finché la mia mente percepì che il vento era diminuito ed anche il cielo s'era fatto più libero, tanto da avvertire il calore del sole sulla schiena nuda. Sul momento pensai che stavamo per venirne fuori, il mare non ci aveva sconfitti ed anche in quest'occasione avevamo salvato la pelle, ma infine compresi il perché: la Hathor si trovava nell'occhio del ciclone.
Avrei già dovuto notare che il vento soffiava in direzione contraria alle onde e stava calando d'intensità, perché dai suoi margini ora eravamo stati spinti all'interno. Nell'occhio le onde erano spaventose per effetto dei forti venti che prima le avevano sollevate da tutte le direzioni e c'era un'atmosfera strana, quasi irreale, come se da un momento all'altro la situazione dovesse cambiare di colpo.
Stringendo disperatamente la leva della pompa, attesi l'esplosione del mondo, un mostruoso gorgo che avrebbe inghiottito noi e mezzo oceano, un fulmine per incenerirci. Ma non cambiò nulla. Il mare continuò a strapazzarci, io continuai a pompare e la barca rimase ancora miracolosamente a galla.

Alla fine, stremato per la fatica, mi fermai. Sollevai lo sguardo per capire se stavamo uscendo dall'occhio del ciclone e rimasi a bocca aperta per la sorpresa quando mi sembrò di scorgere, appena riconoscibile, la sagoma di una nave. Una cascata d'acqua approfittò dell'occasione per riempirmi come un otre di pelle.
Una nave! C'era un'altra nave! Tossendo e strizzando gli occhi tornai a scrutare nella direzione di prima e la rividi. C'era veramente! Si trovava a poca distanza e ne distinguevo il cassero di poppa, la prora dritta senza slancio e un bigo impazzito, privo di ritenute che sciabolava l'aria. Maltrattata da quelle onde infernali, rollava violentemente e mostrava prima l'intera coperta, quindi, la murata nera e il rosso rugginoso della carena. Anche lei prigioniera del ciclone nel suo spietato girotondo.
Pensai all'equipaggio chiuso all'interno nell'attesa di morire o di sopravvivere, ma la visione durò pochi secondi, finché il ciclone decise di separarci e improvvisamente la nave scomparve. Imprecai e ricominciai a pompare senza più fermarmi.

Avevo perso la cognizione del tempo e mi consideravo ormai condannato a pompare per l'eternità, come un dannato all'inferno, quando una mano mi afferrò la spalla facendomi sussultare. Udii la voce potente di Malik che mi giungeva attraverso il rumore della tempesta.
<<Ti puoi calmare>>, urlava, <<siamo riusciti a bloccare la falla e c'è rimasta poca acqua.>>
M'immobilizzò le braccia che ancora azionavano meccanicamente la leva.
<<Rimango io qui, non ti preoccupare. Scendi a riposarti. Alla falla ci pensa Abdul.>> Girò lo sguardo sbigottito attorno nel vedere il mare che ci circondava. <<Allàh Al-Rahmàn! Non ho mai visto un mare simile. Sembra impazzito!>>
Annuii con il capo. La gola mi bruciava e avevo gli occhi incrostati di sale. Non sarei stato capace di emettere alcun suono. Il gigante mi liberò del cavo e stringendomi con forza un braccio mi sospinse verso il boccaporto della cabina, per evitare che un'onda mi portasse con sé. Io non avrei avuto nemmeno la forza di sollevare la piuma di un gabbiano. Scesi la scaletta in trance, mi sentivo un morto vivente che dopo una notte di bagordi truculenti, ritorna stanco nella sua fossa. In cabina mi accucciai accanto ad Alì che, pietoso, mi fece un po' di spazio.
<<Che schifo di crociera!>>, biascicai rivolto al cane. <<Dalla gola mi viene su il gusto della nafta. E a te?>> Non rispose, ma mi gratificò con uno sguardo pieno di comprensione.

continua.............

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