Gli
esistenzialisti
Eravamo quantomeno degli illusi
tanto tempo fa, quando, con la spocchia di chi non si degna e se ne
sta in disparte, ci ponevamo in contrapposizione ad ogni forma di organizzazione,
società civile compresa, senza poi prenderci la briga di proporre
alcunché in alternativa.
Difatti ci eravamo autoproclamati esistenzialisti,
e la prassi dell'apatia e del conseguente spregio per il mondo intero,
erano proprio il segno di quella protesta, fors'anche un po' snob, ma
che comunque caratterizzava l'Esistenzialismo fin dall'inizio.
Non il
pensiero filosofico, s'intende, ma quel pseudo movimento etico-politico
del primo dopoguerra francese, che furoreggiava a Parigi, nelle "caves"
di S.Germain-de-Prés e che, ispirandosi principalmente ai libri
di Sartre, ad alcune poesie e canzoni di Prevert e alla struggente voce
di Juliette Greco, teorizzava l'angoscia e il dramma del vivere, ponendo
per l'appunto "l'anti" quale antidoto. Un "anti"
totalizzante, drammatico eppure seducente, che ben presto, travalicando
ogni barriera, si proiettò nell'inquieto e altrettanto incerto
universo giovanile dell'epoca, tanto che ne divenne una moda.
E fu subito passione anche per noi, studentelli di provincia, con qualche
nozione di filosofia e con vocazioni, anzi con velleità politico-letterarie
e cosmopolite. E ciò sebbene ci si rendesse conto che attribuire
uno storico termine quale Esistenzialismo alla nostra consorteria, se
a Parigi poteva avere un senso, qui era perlomeno improprio. Infatti,
prescindendo dalla naturale irrequietezza determinata dall'età,
il nostro modo di pensare e di comportarci non s'attagliava certamente
all'omonima e alquanto arcigna scuola di pensiero (di cui Kierkegard
fu nell'altro secolo il precursore, e che annoverava ancora filosofi
della tempra di Heidegger e Jaspers, oltre a ispirare una buona parte
della letteratura contemporanea), ma caso mai alla sua volgarizzazione
o, se si vuole, "mondanizzazione", effettuata appunto da quel
furbone di Sartre.
Però non che ciò ci turbasse granché:
in fondo Sartre aveva compreso che lo sradicamento totale dei valori
e delle consuetudini, ovvero le grandi tramutazioni di quel particolare
momento storico, avrebbe determinato specialmente tra i giovani tutto
un sottobosco di scontenti e di arrabbiati, per cui, allettandoli con
quelle sue pur discutibili idee, bene o male era riuscito a farli coagulare
in un disegno che, unendoli e procurando loro una certa qual comune
identità, avrebbe posto pure lui e chi gli era più appresso
alla loro guida spirituale.
Cosicché, senza più remore e perfettamente inseriti nel
contesto, ci mettemmo tosto a scopiazzare gli usi e i costumi dei nostri
amatissimi referenti francesi, divenendo pure noi degli impenitenti
capelloni, oltre a straccioni livorosi e scostanti.
"Oppressi - e l'avevamo senz'altro letto o udito da qualche parte
- dallo "spleen", da quell'ineffabile tristezza che c'era
incollata addosso", e, nel dir ciò, fissavamo compresi il
paziente, quanto attonito astante del momento, certi d'aver fatto colpo.
Giocavamo così col presente e col passato, spacciando per nostri
quei pensieri e quei problemi che tuttavia finora nessuno aveva mai
saputo risolvere. Parlavamo cioè di noia, angoscia, dell'umana
impotenza, dell'assillante esistenza
e poco di donne e nulla di
sport, e poi, quando non ne potevamo più, quando, tra di noi
s'insinuava il diavoletto della politica
le inconcludenti notti
in cui, fumando Alfa e bevendo Sicilia, tiravamo a discutere al lume
di candela, se non ci avrebbero mai potuto illuminare sui nostri dilemmi,
né tanto più sui Grandi Sistemi, almeno ci accaloravano
e ci accomunavano nell'interpretazione e nell'esaltazione di quell'ideologia
che, con gli oggettivi limiti della nostra esperienza, apparentemente
dava un senso compiuto a quel modo di essere che ora potremmo definire
pseudo-rivoluzionario.
Ed è proprio in quell'ottica che, ponendo gli altri - e in primis
gli "spregevolissimi borghesi" - nel "mare magnum"
dell'ignoranza, comunque della tetraggine, avrebbe di conseguenza messo
noi sul piano opposto. E su "Rivolta", il nostro trucido e
battagliero giornaletto in ciclostile, proclamandoci membri del Movimento
Esistenzialista Internazionale (che poi esisteva solo nella nostra fantasia)
e ribadendo perciò i nostri ineffabili concetti, dichiaravamo
fra l'altro in grassetto: "
dell'alta valenza culturale raggiunta
dal nostro movimento, ormai pronto a esprimere dal suo interno, e in
totale assonanza con la Gauche francese, quelle idee e quegli uomini
che ben degnamente avrebbero rappresentato l'autentica aristocrazia
della politica".
Ineccepibile, ma era un dire un po' serioso e un po' per gioco, enunciato
comunque in tempi tranquilli, ben lontani da elezioni, in cui era possibile
teorizzare senza impegnarsi. Difatti, proprio non ci confacevano gli
impegni. Sì, perché, a vederla bene, in fondo a noi bastava
distinguerci, in ogni caso essere a tutti i costi originali, diversi,
degli attori o quantomeno dei caratteristi su un palcoscenico, ma senza
poi darlo a vedere, come dei "bei tenebrosi", magari come
quelli che fanno impazzire le ragazze e in special modo le figlie sceme
dei piccoli borghesucci, e ciò se non altro per vederli crepare
dalla rabbia.
E così la Gauche francese rappresentava per noi, internazionalisti
dell'ultima ora, quel brillante tocco di esotismo che ci occorreva.
Ma era ancora la detestata borghesia e tutti i suoi lacchè, quelli
che a denti stretti definivamo "morchia, l'essenza stessa d'ogni
meschinità" che, piccoli o grandi che fossero, provocavano
in noi "quell'ardor pugnandi" che ci compattava e ci faceva
ritenere invincibili, certi com'eravamo di essere nel giusto. Anche
se, a dir il vero, poco o punto seguiti.
Per quanto la guerra non fosse finita da molto, con l'andare del tempo
la fame e la miseria avevano ormai lasciato il passo a un'incontrollata
voglia di divertirsi e di non pensare a niente. La gente spendeva, anzi
scialava con gioia, scopriva finalmente quello che poi si sarebbe definito
consumismo, e cui già a quel tempo ormai non era proprio disposta
a rinunciare.
Oltre a qualcuno di passaggio e ai nostri presunti amici proletari (che
però ci evitavano accuratamente), ormai ci ritrovavamo sempre
più isolati, sempre più a parlarci addosso, per non dire
al vento. E non che ciò ci dispiacesse, anzi in fondo faceva
parte di quello che noi definivamo il nostro ruolo d'intellettuali ideologicamente
impegnati (anche se a quanto pare incompresi).
Sicché eravamo d'una incoscienza incredibile e d'una purezza
angelica.
Ci lasciavamo andare così, semplicemente, immersi in quel nostro
mondo d'inconcludenze e d'improvvisi slanci, in perenne contrasto con
noi stessi. Fra l'altro credevamo in Dio, senz'ammetterlo; ci professavamo
cinici, ma col pianto di riflesso; trucidi, ma non sapevamo assolutamnte
cosa fosse la violenza e quantomeno le armi, e quella, poi, che, oltre
al tradizionale Sicilia, c'illudevamo fosse la nostra droga (del resto
quasi impensabile a quel tempo), era un semplice the, che noi però
fumavamo tutti compresi, a mo' di spinello.
Non combinavamo un accidenti e ce ne vantavamo, per giunta pretendendo
che gli altri ci imitassero. Detestavamo le convenzioni, i doveri sociali,
la burocrazia, tutto ciò che in qualche modo potesse rappresentare
un vincolo alla libertà del singolo, e nel contempo parteggiavamo
proprio per quel comunismo che, seppure umanitario, seppure e malgrado
i tanti distinguo della nostra tanto beneamata Gauche, comunque condizionava
i comportamenti d'ogni individuo alla suprema rappresentatività
o, se si vuole, all'eticità dello Stato, ovvero rappresentava
proprio l'esatto contrario dei nostri presupposti.
Con sommo spregio additavamo gli elegantoni, per noi succubi, anzi schiavi
della cosiddetta moda borghese, al punto che, per distinguerci del tutto,
apparivamo ancora più sciatti e ineleganti, cioè quell'opposto
che poi più o meno era la stessa cosa, dato che esigeva pure
da noi un'attenzione quasi morbosa.
Così proclamavamo l'amore libero e impazzivamo di gelosia; proclamavamo
la libertà assoluta ed eravamo condizionati l'uno all'altro e
tutti assieme alle nostre abitudini o, peggio, a quei nostri invalicabili
tabù. Proclamavamo l'uguaglianza e c'era anche tra noi chi decideva
per tutti, la tolleranza e non sopportavamo o comunque giudicavamo ignoranti
quelli che non la pensavano come noi
E così la vaghezza delle nostre opinioni e la pochezza dei nostri
intendimenti illanguidiva i nostri pur giovanili cervelli, appassiva
i nostri cuori e ci conduceva pian piano nell'immenso limbo dei nessuno,
ma a testa alta, con la dignità di chi ha comunque tentato qualcosa,
anche se con poco discernimento.
Passò ancora del tempo. Per autoconsunzione o per mancanza di
veri stimoli, pian piano, ma irreversibilmente, anche quella "moda"
perse lo slancio, tanto che nessuno ormai ci dava più bada né
credito. Forse perché davamo l'idea che non avremmo mai combinato
niente, persino i nostri peggiori detrattori non "s'indignavano"
più, ma ci lasciavano cuocere nel nostro brodo, senza nemmeno
più prendersi la briga d'ironizzare sul nostro abbigliamento
o sulla lunghezza delle nostre capigliature. Non provocando più
nessuno, ahimé, a quanto pare ormai non avevamo nemmeno più
con chi prendercela. Ed è ardua davvero l'indifferenza quando
la si esperimenta sulla propria pelle, ben più di quando ci si
limita a evincerla.
Forse avremmo fatto bene a rientrare nei ranghi. Comunque il gioco delle
parti s'era ormai ampiamente concluso: i tanto deprecati piccoli borghesi
s'erano ormai ripreso il campo. La Mediocrità ricalava su tutto.
E venne il momento del lavoro, del matrimonio, delle piccole gioie ma
delle tante delusioni, degli assilli e dei fallimenti che via via si
sono posti sul cammino. Il mattino è divenuto sera e la notte
già si presenta buia e, a dire la verità, non troppo accogliente.
Temo che m'apparirà peggiore, comunque diversa quando non riuscirò
più a sognare e a tornare indietro nel tempo, quando non sarò
più nemmeno quel pur giovane di spirito che ancora m'illudo d'essere,
infine quando, rintanato come sono nel mio piccolo mondo e perciò
omologato agli altri, forse anch'io diverrò notte
e probabilmente
del tutto negletti saranno allora i pensieri, i dilemmi, le tante verità
e magari qualche inutile provocazione o qualche ingenuità, comunque
quel calore umano e quei tanti perché di quand'ero o credevo
d'essere esistenzialista, e che in fondo m'hanno arricchito la vita.
Monologo
d'esistenzialista
Una
coltre, una specie di cappa attorno a me: qualcosa d'impalpabile, di
diafano eppure colloso, attaccaticcio. Qualcosa che nasce e muore, e
rinasce nel mistero, nel vuoto avvolgente dell'aria
nell'ossessione,
nel caos in cui si dibatte un pensiero castrato, incerto, sempre più
confuso, in una sarabanda baluginante d'apparenze
da cui invano tenta di districarsi; qualcosa che intravedo ma non afferro:
mi sfugge, sguscia via
sempre più distante, indefinita.
Oppure che ne percepisco la strana presenza, il palpito: quel segno
informe d'una sua propria vita, d'una sua verità, d'una sua essenza
malcelata talvolta - tanto che ne sfioro i contorni -, eppure per me
inconoscibile
eppure che mi circonda, che sembra partecipare allo
stesso, perverso disegno: fuscello al vento, nel vorticoso marasma della
vita. Stramaledettamente conscio del poco che sono e del troppo che
pretendo.
Ma cos'è che pretendo, se ogni mio ragionamento s'incaglia e
s'annichilisce sugli stessi problemi che pone e pervicacemente ripone,
e che - irrisolti - ne pongono altri, e altri ancora all'infinito? Cos'è
che pretendo se altro non sono che un incorreggibile illuso, anzi un
pazzo? Come pazzo è ogni mio barlume d'idea, anzi ogni mia sicumera
Pazzo, povero pazzo senza remore!
La mia vita scorre fatalmente verso l'unica verità inappellabile:
la morte, che poi è anche l'unica certezza possibile. Ora c'è
la mia esistenza, la sua estatica presunzione d'immortalità e,
di contro, la coscienza che l'irride, seppure amaramente. C'è
questo coacervo d'atomi che è il mio corpo, e il marchingegno
che vi vibra dentro e che mi pone, vivo tra i vivi, a ritentare invano
laddove neanche la scienza è mai riuscita, ovvero a sbrogliare
quel tormentone perenne che è il senso più riposto della
vita.
Già, la vita: quest'incessante multiformità di sensazioni
molte, troppe volte l'una all'altra antitetiche! Quasicché fossero
imposte da un'dentità a noi affine, comunque beffarda.
Ma chi? Ma come? Ma se c'è, dov'è? Chi o che cosa rincorre
il pensiero se non lo specchio deforme di sé medesimo? Oppure
dov'è quest'oggetto o quest'Ente così immenso e profondo?
Non certo nei miei geni, anche se trascendono la memoria che mi porto
dentro; non certo nei miei simili, anche se certuni ne danno a credere;
non certo nei miei incubi, anche se li ritenessi un segno del destino,
e non certo tra queste quattro mura, su questi fogli, ove ogni giorno
vanamente celebro l'invalicabilità della mia
della nostra
solitudine. Allora dov'è???
Ovvero basta quel luminosissimo punto bianco, dipinto però quaggiù,
nell'infinita tavolozza della mia alquanto fervida fantasia, per definirlo
Iddio? Basta sperare, anzi illuderci che ci sia?
- Ma l'Amore Universale? La Provvidenza?
Verrà presto la notte, e piangerò, e le mie lacrime si
disperderanno nel mare oscuro dell'angoscia. La paura, poi il dolore
ritorneranno, e una voce, cupa e arcigna, ululerà parole terribili
nel buio, al primo vento d'autunno.
(Pioggia e lacrime. Lunghe mani bianche tese al cielo plumbeo, di pece
)
- Trema e prega! Trema e prega! -, sarà la risposta, e il gioco
delle ombre, immane farà apparire lo spettro contorto della mia
cattiva coscienza. Nel ciclo della vita tutto si ripaga, tutto si ritorce,
e specie chi gioca col destino rischia di soccombere.
Tutto ritorna, tutto ci portiamo dietro: il passato e il presente coincidono
e, con essi, anche tutti quei momenti bui, che invano vorremmo disconoscere,
e che ci sono appiccicati addosso, come sull'acchiappamosche. Anzi,
che ci costituiscono. Che rappresentano il segno tangibile della nostra
fragilità
dell'angoscia, per l'appunto, di non esistere
pur esistendo.
La
visione
Tanto
lunga e tanto bianca, che non ne avevo mai vista un'altra simile, quella
stradina in mezzo alla campagna era tutta ricoperta da una strana polvere:
inconsistente come cenere, ma bianca e soffice come borotalco.
Una landa.
Uno squallore, che un tenue sole d'autunno, e le siepi e gli alberi
a basso fusto, posti qua e là, oltre i profondi canaloni di delimitazione,
mitigavano appena. E me ne sarei senz'altro tornato indietro, se non
l'avessi improvvisamente intravista quell'informe ma rigogliosissima
massa di verde stagliata sul fondo, in un inverosimile contrasto col
paesaggio agreste. Un intrico. Un'oasi lussureggiante. Delle grandi
piante, suppongo, disposte ad arco, e i cui copiosi rami, dipanandosi,
si restringevano a imbuto, fino a ridursi più o meno ad un pertugio,
da cui riluceva prepotente un minuscolo ma luminosissimo fascio di luce,
diffusa tutt'attorno.
Accelerai il passo. Ma quella visione ora sembrava sempre più
irraggiungibile: sempre più rintanata nella nebbia delle distanze.
Come un miraggio, o come se vi agisse una qualche forza misteriosa che,
attraendola, via via l'allontanasse da me. Cioè, procedevo in
pratica restando fermo. E immutato era anche quel pezzo di strada che
stavo percorrendo. Tutto soggiaceva all'immobilità più
assoluta, sembrava ricondursi ad un segreto e, per me, imperscrutabile
disegno.
Mi rigirai, ma, come se non bastasse, qui ebbi invece l'amara sorpresa
di ritrovarmi in un vicolo cieco, ovvero la strada finora percorsa s'era
dietro a me talmente dilatata, che non riuscivo più a scorgerne
l'imbocco. S'era così sovvertita anche una delle pochissime certezze
che ritenevo ancora umanamente possibili: quella del tempo e dello spazio.
Non poco, direi.
Non mi raccapezzavo più. Non ci capivo più niente. E lo
sconcerto per quanto mi stava capitando s'era ormai sovrapposto alla
curiosità iniziale, diveniva malessere: quell'amara sensazione
di vuoto, tipica del succube o comunque di chi non sa liberarsi da ciò
che gli è anomalo, che anzi lo sovrasta, e a cui, suo malgradop,
non può né potrà mai sfuggire.
Ero angosciato. Mi sarei lasciato andare, abbandonare agli eventi
E già disperavo quando, imprevedibilmente, ma ebbi un repentino
moto d'orgoglio, una rabbia, una matta voglia di reagire
Dovevo,
dovevo reagire! Avrà pur avuto una sua logica tutto ciò,
una sua chiave di lettura? Bastava intuirla e coglierne il bandolo
Ma come? Donde l'inizio?
la fine?
No, quell'enigma non l'avrei
mai risolto, neanche con le più fantasiose congetture. Ci voleva
ben altro per farlo: altri approcci, altre consonanze.
Lascia perdere, mi ripetevo, torna sui tuoi passi. Ma come?
e
quali passi, poi, se era come se fossi in bilico su un piano mobile,
e chissà poi perché programmato per annullare ogni mio
movimento?
Urlato, sì, avrei urlato a squarciagola
e dopo?
Titubante, pieno di problemi ma con l'alibi di qualche residua speranza,
mi rimisi in marcia di buona lena. Forse, pensavo, accelerando il passo
avrei anche rotto l'incantesimo
L'illuso. Eppure, più m'addentravo
in quel pezzo di mondo sconosciuto, più ne ero attratto. Lì
c'era realmente un qualcosa d'inesplicabile, di magico; un qualcosa
che m'affascinava
che m'irretiva anzi.
Come nella bruma del sogno, quando, trepidi, si rincorre quella vaga
rappresentazione dell'ignoto che, appena concepita, già si defila,
e che comunque non si raggiungerà mai. Oppure quando ci s'illude,
e poi fatalmente il risveglio e l'immancabile delusione.
Intanto nulla che smuovesse quel tappeto di polvere, neanche il venticello
proveniente dal Nord. Tutto fermo, antico, ibernato. Ed anch'io in me
e nel contempo fuori di me, come per l'appunto nel sogno. Eppure ora
mi sentivo ben desto, lucido.
Le tristezze me l'ero lasciate tutte dietro,
ed ora cominciavo ad adattarmi, ad inserirmi in quell'ambiente irreale,
a rendermelo esistente, concreto.
Ma, con lo scorrere di ciò che per me era ancora il tempo, sempre
più addosso me la sentivo quella polvere: mi s'insinuava dappertutto
come un ectoplasma, misteriosamente, quasi provenisse dal cielo
Mi stava seppellendo, togliendo il respiro. Ormai proseguivo il cammino
come un automa, quasi senza pensarci su.
E più m'introducevo in quella maledetta polvere, più smarrivo
la percezione, persino la visione del mio corpo. Come dire: m'eclissavo
a me stesso. Già oltre le ginocchia non vedevo più nulla,
e i piedi e le scarpe era come se non ci fossero.
E quell'opprimente cosa biancastra che saliva, saliva
e mi faceva
disperare, temere il peggio.
Passò del tempo. Poi, all'improvviso, tra quei miei poveri piedi
ormai sepolti, il tepore e la carezzevole levità di un qualcosa
d'indefinibile, comunque di rassicurante. Non certo della polvere inerte,
ma qualcosa di dolcissimo e che richiamava alla memoria le fragili nocche
delle mani di un bambino o i morbidi polpastrelli delle zampette di
un gatto, oppure altro del genere. Dalle stelle alle stalle. Ero felice,
al settimo cielo e saltellavo allegramente tra le nubi. Aereo come un
angelo.
Poi, d'un tratto, la vaga, e quindi la netta impressione di qualcuno
che mi stesse spiando di nascosto, come se non volesse o provasse imbarazzo
a farsi riconoscere
E persisteva costui, e sempre con più
insistenza
E me lo sentivo già tutto addosso quello sguardo
fisso. Eppure no, assolutamente non m'intimoriva, anzi era come se facesse
già parte di me. La storiella di sempre: essere in un posto e
presumersi o persino vedersi in un altro.
La lievitazione?
Ma questa volta non ero proprio io a guardarmi,
certamente c'era qualcuno. Qualcuno con grandi, anzi grandissimi occhi,
d'un glauco vitreo, quasi glaciale, che mi scrutavano, che anzi mi frugavano,
che mi compenetravano ovunque, in ogni parte del corpo. Una presenza,
un'ombra vacua, come appunto l'ombra, eppure consistente, concreta.
E quelle mani
quelle lunghe dita affusolate che sgusciavano dal
nulla per ritornare nel nulla. Dietro l'albero
no, la siepe.
Ma nel frattempo la siepe s'era sbiancata dalla polvere, quasi sepolta,
come se fosse racchiusa in una duna del deserto. E QUEGLI OCCHI, oltre
la polvere! Perfidi occhi di mostro
o di stregone. Forse gli occhi
delle mie colpe, pensai, quelle compiute e quelle non, comunque colpe.
Intanto quella maledetta polvere l'avevo già dentro la gola,
nelle narici, negli orecchi
ed era inodore, insapore, comunque
fetida.
Pian piano, ma stavo anch'io divenendo polvere e non avrei potuto farci
niente. Ed era proprio quest'ineluttabilità che più mi
terrorizzava: il male oscuro cui non potevo reagire. Forse non avrei
mai più visto quegli occhi maledetti, poiché i miei ormai
sbiancavano nel nulla.
Eppure ora avevo finalmente la netta sensazione di riconoscerli. Ed
anche le mani
Oddioooo
, ma aveva la coda!