1
- La banda del carciofo
Eugenio
era uno sciocco e tra i suoi difetti questo era il minore. Il suo nome
strideva con la natura un po' tonta, l'espressione persa ed i ragionamenti
giudicati da chi lo stava ad ascoltare, vacui, quando non erano completamente
ignorati.
Lui, al contrario, si considerava molto furbo e affascinante e godeva
di molta considerazione da parte di quelle ragazzine che, abbandonate
le bambole, non riescono a leggere un fotoromanzo senza piangere e credere
che la storia sia vera.
Eugenio era un ventenne, aveva frequentato la scuola fino alla quarta
elementare e viveva da disoccupato con i genitori in pensione, in un
quartiere popolare. Privo di titoli di studio e di cultura, s'arrabattava
assieme ad un gruppo d'amici a commettere ruberie modeste, di poco conto.
La notte razziava nelle auto in sosta autoradio, ruote di scorta, qualche
oggetto dimenticato sui sedili, ombrelle comprese, che rivendeva per
pochi spiccioli ad un ricettatore che di mestiere faceva lo sfascia
carrozze e il ricavato della loro attività fruttava talmente
poco che, diviso tra i partecipanti, era appena sufficiente per le sigarette
e, nei casi più fortunati, i biglietti del cinema, una pizza
e una Coca Cola ciascuno.
In casi eccezionali arraffavano qualche prodotto nei mercati, ma quella
era giudicata da Eugenio un'attività ad alto rischio ed era stata
abbandonata. Infatti, cessò definitivamente la volta che, arraffati
alla svelta un paio d'occhiali da sole di plastica da una bancarella,
era stato sorpreso dal proprietario, un marcantonio che lo superava
in altezza e larghezza di almeno sei taglie. Scontò la pena sul
posto incassando due ceffoni da rincretinire un toro maremmano e non
finì lì. Il marcantonio pretese che pagasse gli occhiali
e se li tenesse e, per fortuna, costavano pochi centesimi. D'altronde,
si rivelarono utilissimi a mascherare i due occhi neri che l'esperienza
gli avevano lasciato in bella evidenza.
Eugenio era il capo della banda, quello che comandava e la cosa lo rendeva
talmente orgoglioso da credersi speciale, più in gamba di B.
G. Robinson nella parte di Piccolo Cesare a Chicago. Comandare, oltre
al resto, aveva accentuato ancora più l'altissima considerazione
che aveva di se stesso. Tuttavia, nessuno si meravigliava della sua
posizione conoscendo il resto della banda: tre sbarbatelli del rione
tra i quali il più sveglio era riuscito a farsi promuovere dalla
seconda alla terza elementare, dove s'era immobilizzato per tre anni,
finché non l'avevano rimandato definitivamente a casa. Da ciò,
era evidente che per comandarli la scelta non poteva che ricadere sul
più colto: Eugenio.
La banda era così composta: Capo per acclamazione generale Eugenio,
suo braccio destro e luogotenente Ugo, braccio destro di Ugo, Anselmo
e, per finire, braccio destro di Anselmo era l'ultimo del gruppo, Ottone
il forzuto. Ma vediamoli individualmente per capire che tipi componevano
la banda più incapace della più incompetente malavita
del più povero rione della più insignificante città.
Ugo era magro come un grissino e alto come un lampione. Aveva la testa
a pera che teneva completamente rapata a zero e due orecchie rosse a
sventola che lo facevano sempre riconoscere, anche immerso in una folla
di tifosi pigiati sulla curva nord di uno stadio di calcio. Di tutti
era il più indicato per fare da palo durante le azioni ladresche,
ovviamente. Alto com'era, aveva un orizzonte molto ampio che gli permetteva
di scorgere un pericolo in arrivo in un tempo sufficiente a permettere
ai suoi soci di scappare e allontanarsi di almeno tre chilometri. Era
considerato un elemento prezioso della banda.
Anselmo, al contrario di Ugo, era mingherlino e molto basso di statura,
un vero tappo. Vestiva la taglia di un dodicenne poco sviluppato, ma
era di un'agilità incredibile. Ottimo arrampicatore, era in grado
di infilarsi in qualsivoglia pertugio. Era adatto ad entrare in una
casa anche da una ventola dell'impianto dell'aria condizionata ed aprire
dall'interno la porta ai suoi compagni. Di certo, un elemento prezioso
se si fossero dedicati ai furti nelle case.
Ottone, l'ultimo della banda, era il tonto della compagnia. Grasso o
meglio muscoloso come si definiva lui stesso, lento, pigro, privo d'intuito
e d'idee, era l'uomo forte, quello che riusciva a sollevare i pesi maggiori,
il facchino della banda. Si definiva, grazie al nome di cui andava orgoglioso
ed a cui faceva riferimento, più duro dell'acciaio, dimostrando
così la sua completa ignoranza in materia di metalli e leghe
varie.
Secondo i suoi amici era insostituibile. A lui spettavano i lavori più
faticosi che i compagni gli permettevano di svolgere, dimostrandogli
così la loro alta considerazione.
Questa era la banda e, come ogni banda che si rispetti, aveva un nome:
la Banda Del Tulipano Nero. Un nome deciso dopo che Eugenio aveva preteso
di far dipingere sulle schiene dei loro giubbetti gialli un tulipano
nero, reminiscenze di una vecchia pellicola cinematografica. In realtà,
la gente li chiamava Quelli Del Carciofo perché l'artista che
aveva dipinto i tulipani lasciava parecchio a desiderare. D'altronde,
nessuno può pretendere che un imbianchino sia anche un maestro
della tavolozza. Fatto sta, che la banda del carciofo nonostante numerosi
piccoli furtarelli, non aveva raggiunto ancora la notorietà e,
tanto meno, era temuta nel rione dove agiva. La gente del quartiere
considerava i quattro ragazzi nulla più che degli sfaccendati,
teppistelli da poco, dei carciofi, insomma.
A lungo andare, essere ignorati, se non derisi dai ragazzi delle bande
più importanti, era diventato un tormento per Eugenio e, conseguentemente,
il suo luogotenente e così di seguito. Ognuno di loro sfogava
la propria insoddisfazione sull'amico meno importante e tutto ciò
stava ormai incrinando la loro società, tanto che una sera la
cosa fu oggetto di mugugni e lamentele.
<<Dobbiamo fare un colpo!>> sbottò Eugenio, rivolto
ai suoi accoliti. <<Un colpo tale che se ne parli per i prossimi
cento anni!>>
Strinse i pugni appoggiandoli sui fianchi e riempiendo il modesto torace
d'aria. Sì, modesto perché m'ero scordato di dire che
il nostro gangster non era muscoloso e nemmeno la statura lo faceva
risaltare. Era piuttosto insignificante, ma come l'attore americano
G. B. Robinson, era in grado di imporsi sugli altri perché aveva
un tono di voce duro, incisivo e con la platea che si ritrovava era
più che sufficiente.
<<Qualcosa che nessuno di qui avrebbe il coraggio di fare.>>
continuò. <<Un colpo che ci riempirà le tasche di
soldi.>>
<<Una rapina?>> domandò Ugo. <<Rapiniamo qualcuno,
magari l'orologiaio. Gli rompiamo la testa con una sbarra di ferro e
gli vuotiamo il negozio.>>
Non aveva nemmeno finito la frase che s'era già pentito al solo
pensiero del sangue e delle conseguenze. Si azzittì e le orecchie
prima solamente rosate divennero di un bel rosso scarlatto.
<<Mmmm!>> fu l'unico commento di Anselmo e di Ottone, anche
loro turbati dalla ferocia della proposta.
<<Macché orologiaio d'Egitto!>> esplose Eugenio.
<<Primo, perché anche prendendo tutte le cipolle di latta
che quel pitocco tiene in vetrina, sai che miseria ci guadagniamo! E,
secondo, il mio piano non prevede l'uso della violenza, nessuna vittima
e nessun testimone. Non voglio passare il resto dei miei giorni in gabbia!
Il colpo lo faremo in una villa abbandonata, dove non c'è nessuno.>>
Osservò i compagni e aggiunse serio: <<Dobbiamo usare l'intelligenza
e non la forza e questa l'abbiamo! Eccome!>>
<<Ma se la casa è abbandonata? Allora sarà vuota
come le nostre tasche!>> obiettò Anselmo, interrompendo
il capo.
<<Ma cosa hai capito! Io intendevo chiusa, disabitata per la sera,
perché i proprietari sono assenti. Non ci sono. Sono via!>>
Eugenio lanciò uno sguardo micidiale ad Anselmo. <<Entriamo
in una delle ville che si trovano sulla costa. Quelle di lusso che hanno
anche la barca in darsena, un parco, la piscina, il garage e una bella
cancellata di ferro battuto attorno. E l'antenna parabolica sul tetto.>>
<<E cani lupo grossi come cavalli! Un guardiano armato e l'allarme
a sirena e la recinzione con la corrente elettrica!>> terminò
Ugo con voce tremante, ancora impaurito dalla sua proposta di prima.
<<Forse.>> disse Eugenio, con un tono marcatamente sicuro.
<<Ma noi il furto lo studieremo per bene, con calma e andremo
a colpo sicuro. Prima sorvegliamo tutte le ville e per ognuna annotiamo
i sistemi di sicurezza e gli orari dei padroni e poi scegliamo quella
che ci sembra la più facile da ripulire.>>
<<Mmmm!> mugugnarono in coro Anselmo, Ottone e, stavolta, anche
Ugo.
<<Che banda di ragazzine!>> commentò disgustato il
capo <<Lasciate fare a me. Per il momento fissiamo un'altra riunione.>>
Ci pensò su per un paio di minuti. <<Domani sera, alla
stessa ora ci troveremo proprio qui, vicino al molo dei pescatori. Esattamente
qui. Alle dieci precise, giusto dopo cena!>>
<<Ma se ogni sera alle dieci ci troviamo qui, proprio qui, dove
siamo ora?>> fece Ugo, sorpreso <<Cosa cambia?>>
<<Adesso è diverso! La nostra di domani sarà la
riunione di quelli del Tulipano Nero. Domani ci divideremo i compiti
e cominceremo a studiare il colpo.>> Osservò serio i suoi
uomini e aggiunse con uno sguardo minaccioso: <<Mi raccomando,
silenzio e acqua in bocca!>>
Così terminò la riunione della Banda del Carciofo, la
loro prima riunione seria a cui seguirono altre non meno serie, perché
per il mese seguente i nostri Carciofi, pardon, i nostri Tulipani iniziarono
ad approntare un piano talmente audace che avrebbe impressionato anche
le menti del crimine più dure e famose.
Passarono
i giorni seguenti a gironzolare tra i viali del lungomare, accanto alle
alte siepi che racchiudevano le ville, di fronte ad ampi cancelli. Osservavano
l'andirivieni di lussuose automobili e di fornitori e annotavano su
di un quadernetto, ultimo superstite del materiale scolastico di Eugenio,
orari, movimenti e presenze. Ogni particolare utile ad accertarsi che
la villa che sorvegliavano era sempre abitata, oppure lasciata vuota
e senza custodia. Riempirono più di trenta paginette d'annotazioni,
scritte a matita e tanto piene d'errori che se fossero capitate in mano
ad un maestro di scuola, il poveretto avrebbe avuto le notti piene d'incubi
allucinanti per il resto dei suoi giorni. Anche dopo essere andato in
pensione.
Se poi l'avessero viste in questura, i poliziotti le avrebbero immediatamente
passate al controspionaggio, convinti che quelle indecifrabili parole
non potevano essere altro che documenti segreti di qualche potenza nemica
e sarebbero finiti tra le mani di un esperto crittografo. Erano appunti
inintelligibili, indecifrabili a tal punto che anche i nostri amici
avrebbero avuto bisogno dello stesso crittografo quando, la sera, Eugenio
rileggeva quanto annotato durante il giorno. Lui stesso non capiva più
cosa diavolo avesse scritto. In ogni caso, non si perse d'animo e nonostante
l'impresa sembrava ardua, più di quanto aveva immaginato, riuscì
dopo due mesi ad individuare la villa che, con il minor rischio possibile,
sarebbe potuta divenire il teatro delle sue imprese e di quelle dei
suoi Tulipani Neri.
Era la villa del Commendatore Amintore Ramboni, un anziano giudice in
pensione di corporatura bassa e tonda, molto in carne. Aveva la testa
completamente calva e sotto il naso a patata, un paio di folti baffi
cespugliosi. Il commendatore Ramboni abitava assieme alla moglie, una
minuta vecchietta dai capelli turchini, tutta ossa e pelle grinzosa
e con una voce penetrante come il rumore del gesso su di una lavagna.
Eugenio aveva appurato che i due abitavano da soli, non avevano cani
perché la moglie ne aveva una paura folle e nemmeno personale
di servizio fisso perché erano entrambi piuttosto tirchi. L'unica
cameriera arrivava ogni mattina alle otto e andava via alle sei del
pomeriggio, inoltre, due giorni la settimana c'era pure un vecchio tuttofare
che si occupava della manutenzione della casa e del giardino. I coniugi
Ramboni avevano un'autovettura che tenevano in un garage adiacente alla
villa. Un'auto vecchia di trent'anni, tenuta come nuova. La guidava
il Commendatore Amintore che per uscire dal garage, percorrere il vialetto
e superare il cancello, ci perdeva almeno mezz'ora, tanto era lento
e meticoloso. Stringeva lo sterzo come se fosse l'unico appiglio che
lo trattenesse dal precipitare da un grattacielo, le braccia piegate,
la schiena rigida ed i baffi che si spettinavano sulle razze del volante.
Strizzava anche gli occhi dimostrando così che a malapena distingueva
il fregio posto sul cofano. Ogni due giorni accompagnava la moglie in
città a fare la spesa, lo stretto necessario ovviamente, oppure
dal parrucchiere e ogni sabato lasciavano la villa alle venti e trenta
e andavano al cinema e a cena fuori in una modesta trattoria in centro
città.
Eugenio l'aveva scoperto inseguendoli sul sellino della bicicletta da
donna di sua madre e non aveva dovuto nemmeno faticare a star loro dietro.
Il Commendatore Amintore aveva la guida prudente e non superava mai
i venti chilometri l'ora e durante il viaggio non ingranava mai neppure
la terza, tanto che l'auto era sempre su di giri. Inoltre, pigiava sul
freno ogni quattro secondi perché dava la precedenza a tutti,
colombi compresi. Più di una volta Eugenio rischiò di
tamponarlo.
Una cosa, però, l'avevano compresa in nostri Tulipani: i coniugi
Ramboni erano abitudinari ed i loro spostamenti seguivano orari talmente
precisi che uno poteva regolare l'orologio.
La villa era una costruzione d'epoca a due piani, graziosa, con un giardino
abbastanza ampio contornato da un'inferriata ricoperta di spesse e fitte
rose rampicanti. Il cancello doppio era posto tra due colonne di pietra
con sopra due grosse palle di granito, aveva una grossa serratura e
nessun sistema elettrico antifurto. Sappiamo che non c'erano cani e
tanto meno guardiani notturni. Le finestre della casa avevano delle
persiane piene quasi sempre aperte. C'era, poi, il robusto portoncino
d'entrata ed una porta sul retro, difesa dal solo vetro. In quella casa
ci sarebbe potuto entrare anche un bambino.
Ma cosa avrebbero potuto rubare? Quasi certamente il televisore, la
cui presenza era denunciata dall'antenna sul tetto, probabilmente una
radio, l'argenteria e forse i gioielli della signora, gioielli che lei
non sfoggiava mai, ma che la domestica aveva descritto una sera ad un'amica
mentre attendevano la corriera. Però, più importante di
tutto, era la collezione numismatica del vecchio Ramboni. L'ex giudice
era un noto collezionista, ogni sabato andava all'edicola dove acquistava
giornali specializzati, oppure in un importante negozio di numismatica
a confabulare con altri appassionati e con il titolare del negozio.
Quindi, riepilogando, i due vecchi vivevano da soli, erano abitudinari,
evitavano di spendere in personale, ma non si lesinavano spettacoli,
cene ed acquisti personali, soprattutto il commendatore con la sua mania
per le monete. La casa ogni sabato sera rimaneva incustodita, ma anche
le altre sere della settimana era buia e silenziosa perché i
due andavano a dormire non più tardi delle dieci e da quel momento
in poi il buio ed il silenzio regnavano incontrastati.
Decisero di fare il colpo un sabato sera, a casa vuota. Sarebbero penetrati
appena i proprietari fossero partiti con la macchina. Ugo avrebbe fatto
da palo mentre Eugenio e gli altri due sarebbero entrati dalla porta
sul retro.
Finalmente
giunse la sera predestinata e la banda al completo raggiunse la casa
alle otto, mezz'ora prima dell'ora solita in cui il commendatore e la
moglie erano soliti uscire. I quattro si appostarono dietro i bottini
dell'immondizia e attesero pazienti. Avevano con loro l'attrezzatura
necessaria: tre lampade a torcia, un piede di porco, un cacciavite,
una ventosa per i lavandini ed un attrezzo per tagliare il vetro. Il
tutto avuto in prestito da Alfio, lo sfascia carrozze. E per finire,
un borsone da tennis pieno di sacchi vuoti per raccogliere la futura
refurtiva. Erano tutti vestiti di nero come spazzacamini e si erano
imbrattati le facce con un tappo di sughero bruciacchiato.
Alle nove erano ancora lì, accucciati dietro i bottini, con le
gambe doloranti. Era passata mezz'ora dal momento in cui il commendatore
sarebbe dovuto uscire dal portone alla guida dell'auto, con la moglie
a fianco, ma non s'erano visti.
<<Porca Vacca! I vecchi stasera non escono.>> commentò
Anselmo, mentre si massaggiava le gambe completamente invase dalle formiche.
<<Forse sono usciti prima e noi restiamo qui come cretini ad aspettare
per nulla.>> fece Ugo <<Ancora un po' che annuso la puzza
di queste immondizie e vomito anche l'anima!>>
<<Fate silenzio! Devo pensare!>> ruggì, sottovoce,
Eugenio.
<<Beh! Allora io mi siedo.>> commentò Ottone. <<Se
rimango ancora così finisce che prendo la piega e non mi raddrizzo
più!>>
<<Forse sono usciti prima, le luci sono tutte spente. Se fossero
in casa ormai avrebbero acceso almeno una lampadina. Vi pare?>>
sospirò Anselmo, mentre si appoggiava con la fronte ad un bottino
<<Se fra dieci minuti è ancora tutto buio, entriamo.>>
<<Decido io quando e se entriamo!>> sbottò Eugenio.
<<Il capo sono io ed io decido! Capito uomini?>> Lanciò
loro un'occhiata che, oltre a Robinson, avrebbe invidiato anche Bogart.
Guardò l'orologio e disse: <<Andiamo!>> Si sollevò
lentamente mentre le ginocchia urlavano tutto il loro dolore e con una
smorfia di sofferenza si diresse verso il recinto della villa.
Il resto della banda lo seguì come un gruppo di storpi anchilosati
e a stento riuscirono a trattenere i lamenti.
Erano le ore nove e quattro minuti.
Si addossarono al recinto e, uno dopo l'altro, iniziarono a scalarlo.
Le rose, come tutti sanno, hanno le spine e quelle rampicanti della
villa erano più che spinose. Ogni spina superava in lunghezza
la lama di un coltello da macellaio. Fu una scalata molto sofferta e
quando i nostri ladri riuscirono finalmente ad approdare sulla soffice
erbetta del giardino, sembravano reduci da uno scontro con cento Samurai
inferociti. Ottone, in particolare, sembrava San Sebastiano dopo il
supplizio.
Quatti, quatti, attraversarono il giardino e raggiunsero la porta sul
retro dove si ammassarono. Ognuno prese di tasca un paio di guanti che
indossò. Eugenio aveva guanti neri di pelle, Anselmo rossi di
gomma presi in cucina a sua madre, Ottone blu scuri di lana e Ugo un
paio di manopole di lana di quelle che si indossano per sciare. Subito
si sentì l'odore di naftalina del sacco dal quale erano stati
prese.
Eugenio impugnò la ventosa che appoggiò al vetro premendo
per farla aderire e si armò di taglia vetri. Ugo, nel frattempo,
si era spostato presso l'angolo della casa a fare da palo. Come un vetraio
professionista, il capo iniziò ad incidere la lastra attorno
alla ventosa e non aveva praticato nemmeno mezzo taglio che l'intero
vetro, trenta centimetri per cinquanta, si staccò dall'intelaiatura
per precipitare all'interno della casa. Il rumore sembrò quello
di una cristalleria colpita da una palla di cannone.
<<Stucco vecchio.>> commentò calmo Anselmo, mentre
Ugo li raggiungeva con l'espressione di uno che si fosse appena trovato
a faccia a faccia con un tirannosauro Rex.
<<Ma siete impazziti?>> fece l'ex palo. <<Tanto valeva
buttare giù la porta a calci!>>
<<Zitto, maledizione! Ritorna a fare la guardia e non ti muovere
di là!>> gli ordinò Eugenio, mentre con la mano
all'interno della porta cercava di aprire il catenaccio. Lo trovò
e lo fece scorrere, quindi spinse piano la porta.
Un cigolio infernale, accompagnato dal rumore di vetri trascinati, informò
l'intero lungomare che la porta si stava aprendo. Rimasero pietrificati,
indecisi se entrare, rimanere immobili per tutta la notte, oppure scappare
come lepri saltando il recinto irto di rose a piè pari. Ugo invece
di obbedire era rimasto accanto ai compagni a turarsi le orecchie con
il palmo delle mani.
Dopo dieci minuti abbondanti erano ancora congelati di fronte alla porta
aperta. Nessuno aveva lanciato l'allarme, nessuna luce si era accesa
e nessuna sirena della polizia arrivava ululando. Buio e silenzio avvolgevano
la scena.
Il primo a scongelarsi fu Eugenio che entrò cautamente, seguito
dai compari più atterriti che mai. Camminavano in fila indiana,
sulle punte, preceduti dal fascio di luce della lampada del loro capo.
Ultimo Ugo che si richiuse la porta alle spalle. Il cigolio mandò
a tutti il cuore in gola, ricongelandoli per altri dieci minuti.
Appurato che anche questa volta nessuno s'era accorto del rumore, proseguirono
per uno stretto corridoio che li condusse in un'ampia cucina. Il locale
era impregnato di un odore che faceva venire l'acquolina in bocca. Ottone
accese la sua torcia e si diresse verso i fornelli.
<<Pasta al ragù e pollo arrosto con funghi.>> fece
illuminando l'interno di due pentole <<Senti che profumino!>>
<<Lascia stare, cretino!>> Ringhiò Eugenio uscendo
dalla cucina.
Il gruppo attraversò una sala da pranzo con la tavola ancora
ricoperta dalla tovaglia e dai piatti sporchi rimasti dalla cena e s'infilò
in un corridoio su cui si aprivano altre due porte e terminava con le
scale che davano al piano superiore. Eugenio s'inginocchiò, aprì
il borsone da tennis e consegnò ad ognuno un sacco nero per le
immondizie.
<<Ora ci dividiamo i compiti. Anselmo ed io spazzoliamo per bene
il piano terra, la sala da pranzo, il salotto e lo studio, mentre tu,
Ottone, vai a dare un'occhiata di sopra. Ricorda di prendere le pellicce
e i gioielli e appena finito qua giù ti raggiungiamo. Tu Ugo
potresti
>> Guardò allibito il compagno che sarebbe
dovuto rimanere fuori di guardia e lo illuminò in pieno volto,
orecchie comprese. <<Ugo? Perché diavolo sei qui? Brutto
scemo, mi sai dire chi fa da palo?>>
<<Io No. Primo, perché rimanere lì da solo al buio
mi rende nervoso, secondo, perché sono curioso di vedere la casa
e, terzo, perché posso sempre controllare l'esterno da una finestra.>>
rispose l'altro, piantandosi le mani sui fianchi e tirando fuori qualche
millimetro di torace.
<<Va bene, va bene.>> sospirò Eugenio esasperato.
<<Allora vai con Ottone, vedi che altri locali ci sono di sopra.>>
Si divisero. Ugo e Ottone s'inerpicarono su per le scale che sotto il
peso di Ottone, scricchiolarono come il fasciame di un veliero in preda
ad un uragano, mentre Eugenio e Anselmo entrarono nella prima stanza.
Era un vasto salotto con divani, poltrone, vetrina con cristallerie
assortite, il tutto ricoperto di soprammobili, quadri, lampade da tavolo
ed un'intera collezione di foto in cornici d'argento. Sembrava di stare
alla fiera dell'antiquariato. Una pacchia se al posto dei sacchi avessero
avuto un autocarro con rimorchio. C'era anche un grosso televisore ed
un impianto stereo incassati in un pesantissimo mobile antico di noce.
Eugenio si fermò esterrefatto, lasciò la stanza e s'infilò
nella seconda porta. Era lo studio. Arredatissimo, con scrivania monumentale,
ampia libreria, poltrona da lettura, lampade e libri sepolti dietro
un'infinità d'oggetti, tutti meritevoli di considerazione.
<<Ma è una casa, oppure il magazzino d'un rigattiere?>>
commentò Anselmo, fermo dietro ad Eugenio.
<<Cerchiamo subito la roba di valore.>> fece serio l'altro.
<<Se dobbiamo stare qui a scegliere, non ci basta un mese.>>
Saltarono tutti i soprammobili e i quadri nelle pesantissime cornici
dorate che li contenevano, rinunziarono anche al televisore e all'impianto
stereo e cominciarono ad aprire tutti i cassetti e i portelli delle
librerie. Eugenio voleva trovare la collezione di monete e, se possibile,
anche i gioielli.
Stavano scardinando un ostinato cassetto della scrivania, quando dal
piano di sopra esplose un tonfo che fece tremare l'intera casa. Al tonfo
seguirono una serie di passi agitati e pesanti. Qualcuno stava scendendo
a precipizio la scala e dal rumore doveva trattarsi di un canguro con
la coda in fiamme.
Eugenio e Anselmo spensero immediatamente le loro torce rimanendo nel
buio più completo. Ai saltelli del canguro seguì il rumore
di uno scontro: la collisione tra un venditore di campanacci e uno di
pentole.
<<Accidenti!>> esclamò Ugo, mentre si rovesciava
assieme ad un tavolino sovraccarico di un'intera collezione di posacenere
di rame, una lampada di bronzo e una statua di ceramica gigante raffigurante
una completa orchestra sinfonica.
I due accesero le lampade illuminando la scena. Era impressionante a
vedersi!
<<Cosa diavolo succede?>> urlò sottovoce Eugenio,
aiutando Ugo a districarsi del cavo elettrico della lampada. Anselmo
si era messo a raccogliere i posacenere.
<<Succede che i vecchi sono in casa! Ecco cosa succede!>>
mugolò Ugo <<Sono a letto e quel deficiente di Ottone si
è chinato su di loro piantandogli la lampada in faccia.>>
<<Filiamo!>> Anselmo si era già girato verso la porta.
<<Aspettate! I due vecchi non si sono neppure svegliati.>>
continuò Ugo. <<Hanno continuato a dormire profondamente
con gli occhi spalancati. Fanno tanta impressione che, vedendoli, Ottone
è svenuto. Non avete sentito il rumore? E' andato giù
di schiena come un armadio.>>
<<Impossibile!>> esclamò Eugenio.
<<Allora vai a vedere, se non mi credi. Quei due non hanno mosso
una palpebra. Nessuno ha un sonno così pesante.>> Sollevò
le spalle allargando le braccia e aggiunse: <<E non sono nemmeno
stati ipnotizzati. Quelli sono: CA..DA..VE..RI!<<
Eugenio con il piede di porco stretto in pugno si mise cautamente a
salire le scale. Dal piano di sopra filtrava una debole luce. Entrò
nella prima stanza. Un enorme letto a baldacchino occupava più
di metà locale, mentre lo spazio rimanente era invaso dal corpo
di Ottone, steso a terra, pancia in su, braccia allargate a croce. La
sua torcia era vicino alla testa e gli illuminava la faccia dall'espressione
terrorizzata che fissava il soffitto. Eugenio si avvicinò inginocchiandosi
presso l'amico che pareva morto stecchito ma stava, invece, mormorando
una nenia: <<Mamma mia, mamma mia, mamma mia santissima, salvami
tu, ti prego
.>> E così di seguito.
Appurato che Ottone era vivo e respirava, anche se con affanno, Eugenio
si raddrizzò per dirigere la luce della torcia su letto matrimoniale
e per poco non gli prese un colpo.
Il commendatore Amintore e signora erano a letto, stesi uno a fianco
dell'altra ed entrambi osservavano stupiti il baldacchino che li sovrastava.
Erano immobili, pietrificati e dal colorito grigiastro e dagli sguardi
vitrei era facile dedurre che si sarebbero svegliati solamente il giorno
del Giudizio Universale e non un minuto prima.
<<Che ti avevo detto?>> gli mormorò Ugo all'orecchio,
mentre gli batteva una mano sulla spalla.
Per la paura Eugenio si sentì fermare il cuore, come se qualcuno
glielo avesse tolto di colpo lasciandolo a metà d'un battito.
<<Ma sono morti!>> urlò, appena riuscì a raccogliere
in bocca una quantità di saliva sufficiente per una frase tanto
breve.
<<Stecchiti.>> confermò l'amico, toccando con il
dorso della mano la fronte del commendatore. Si sentiva esperto e coraggioso
perché un mese prima aveva dovuto fare la stessa operazione a
suo nonno sul letto di morte <<Morto da poco. E' ancora tiepido.>>
Toccò anche la fronte della moglie. <<Anche lei, è
morta da poco.>>
<<Morti freschi di serata.>> aggiunse Anselmo che li aveva
raggiunti e stava anche lui illuminando i due volti dagli sguardi fissi
verso l'Aldilà e ipotizzò: <<Saranno morti di vecchiaia.>>
Un rumore alle loro spalle impedì altri commenti. Ottone si stava
rialzando senza interrompere la sua nenia. Sembrava dimagrito e tremava
come un budino sulle montagne russe. A sottofondo della nenia si udiva
il battere dei denti.
<<Andiamocene subito!>> propose Ugo, mentre assieme ad Alfonso
afferrava le braccia di Ottone per sostenerlo.
<<Senza prendere nulla?>> domandò Eugenio. <<Tanto
a loro certamente non interessa più se freghiamo qualcosa.>>
Gli uomini della banda del Tulipano Nero si scambiarono un'occhiata,
ci pensarono almeno due secondi e annuirono all'unisono. Era deciso.
Ormai erano lì e sarebbe stato da stupidi andarsene a mani vuote.
Uscirono dalla camera da letto richiudendo la porta e prima di scendere
da basso provarono l'unica altra porta del corridoio che scoprirono
chiusa a chiave. Scesero nuovamente le scale e ripresero le ricerche
al piano terra. Ottone pareva in trance ed era ormai inutile, perciò
lo parcheggiarono seduto al tavolo da pranzo ad attenderli davanti ad
un piatto da portata con gli avanzi del pollo.
<<Questo lo rianimerà.>> Aveva commentato Anselmo.
Lo stavano facendo accomodare quando Eugenio fu attratto dalla tavola
ancora da sparecchiare. Rimase un attimo a pensare e poi alzò
lo sguardo verso gli amici.
<<Ci sono quattro coperti.>> disse con un filo di voce,
mentre indicava il ripiano della tavola.
<<Avranno avuto ospiti.>> fece Ugo <<Cosa te ne importa?
Lascia perdere e continuiamo a cercare almeno le monete.>>
Uscirono dalla sala da pranzo e rientrarono nello studio per aprire
i cassetti della scrivania. Mentre Eugenio con l'aiuto di Ugo tentava
nuovamente di forzarne il primo, Anselmo scoprì che un quadro
nascondeva una cassaforte a muro. Rinunciarono subito alla scrivania
e si piantarono davanti alla cassaforte. Era socchiusa e, spalancato
lo sportello, fissarono stupiti il contenuto. Era piena di scatole di
velluto blu, tutte aperte e dalle sagome tonde vuote che c'erano nei
vari ripiani interni, si capiva che un tempo avevano contenuto la collezione
di monete. C'era anche un piccolo scrigno da gioielli, pure lui desolatamente
vuoto.
Molti furono i pensieri che passarono per la mente di Eugenio. Primo:
qualcuno li aveva preceduti. Secondo: i due coniugi erano ancora tiepidi,
nemmeno freddi e quindi appena morti. Sentì un brivido percorrergli
la schiena e un paio d'altri pensieri affollargli la mente. Mai aveva
avuto l'occasione di averne tanti assieme. Terzo: forse i due non erano
morti di morte naturale ma erano stati ammazzati. Quarto: forse chi
li aveva ammazzati era ancora in casa. A questo pensiero se ne aggiunse
subito un quinto: gli assassini erano due.
Chissà quando l'uomo che ha debellato malattie mortali, scoperto
quasi tutto del corpo umano, della terra che lo ospita e già
si avventura nello spazio riuscirà a capire completamente i misteri
del cervello e della mente in particolare? Pensiamo a tre cervelli di
modesta levatura con all'interno tre intelligenze di poco superiori
a quelle di tre criceti che riescono improvvisamente ad entrare in sincronia,
scambiandosi mentalmente i pensieri reciproci. Pensiamo e tre giovani
che sono giunti alle stesse conclusioni nel medesimo istante e riescono
a scambiarsi le proprie impressioni, solamente incrociando tra loro
degli sguardi intrisi di paura. Ecco, questi erano i nostri tre Tulipani
mentre stavano con la bocca aperta di fronte all'interno vuoto della
cassaforte.
<<Recuperiamo Ottone e battiamocela!>> bisbigliò
Eugenio, voltandosi lentamente verso la penombra dello studio.
La sua proposta fu accettata all'unanimità ed i tre ritornarono
in sala da pranzo dove li attendeva il quarto Tulipano che, però,
non c'era più. Scomparso, volatilizzato. Il fatto li gettò
nel panico.
<<L'hanno rapito e adesso è sicuramente morto!>>
mugolò Anselmo, lo sguardo abbattuto mentre si mordicchiava le
unghie delle dita della mano infilata nel guanto di gomma.
<<Scappiamo, forse ci salviamo almeno noi!>> suggerì
Ugo, diretto verso la cucina che dava sulla porta sul retro.
<<Rimaniamo, lo cerchiamo e lo salviamo!>> ordinò
Eugenio, mentre nel suo cervello Robinson e Bogart facevano a gomitate
per prendere in mano la situazione.
<<Sarà scappato dalla porta sul retro.>> suggerì
Anselmo, prontissimo ad imitarlo.
<<No, avremmo sentito il cigolio.>> fece Eugenio, soddisfatto
dell'intuizione avuta. <<Deve essere ancora in casa.>>
<<Sono qui.>> pigolò una vocina da sotto il tavolo,
mentre il testone di Ottone faceva capolino semi coperto da un lembo
della tovaglia bianca.
<<Anche noi.>> si aggiunsero in coro due voci nuove.
Erano
un uomo e una donna ed erano apparsi sulla porta. L'uomo, giovane, indossava
un elegante abito grigio di buon taglio con tanto di cravatta rosso
vino e pistola a tamburo nella mano destra. La donna, anche
lei giovane, vestiva un tailleur verde bosco, scarpe con i tacchi a
spillo, borsetta e una piccola automatica argentata nella mano sinistra.
<<Siete voi gli assassini dei due vecchi!>> fu il coro generale
composto di almeno sei voci di sei persone che, quattro contro due,
si scrutavano reciprocamente.
<<Su le mani!<< ordinarono i due personaggi nuovi.
<<Obbedisco!>> risposero quattro voci mentre otto braccia
si alzavano al cielo mettendo in mostra quattro paia di guanti dei modelli
più disparati.
<<Ora rimanete fermi e mettete le mani sulla testa intrecciando
le dita tra loro!<< disse l'uomo con la pistola a tamburo.
I Tulipani Neri eseguirono immediatamente, anche Ugo ma con qualche
difficoltà perché aveva i guanti a manopola.
<<Cara, con questi quattro cretini abbiamo risolto i nostri problemi.
Saranno loro a prendersi la colpa della morte degli zii e del furto.>>
continuò il giovane. <<Portiamo via uno di loro e poi l'ammazziamo
facendo sparire il corpo. Gli altri li lasceremo qui, chiusi in cantina
e quando riusciranno a liberarsi non potranno andare certamente alla
polizia. Con una telefonata anonima li denunciamo e tutti penseranno
che sia stato il loro amico scomparso a tradirli e a rubare le monete
e i gioielli. Chi vuoi che creda a questi ladri di polli.>>
<<Tesoro sei proprio in gamba!>> fece lei, sorridendogli
<<Ottima idea, ma chi prendiamo di loro?>>
<<Quello grosso.>> Indicò Ottone. <<Dalla faccia
mi sembra il più scemo. Tu rimani qui e tienilo sotto tiro mentre
io porto gli altri in cantina.>> Si staccò dalla compagna
e con ampi gesti della canna della pistola indicò il corridoio
agli altri. <<Forza ragazi, la cantina è quella porticina
in fondo al corridoio!>>
Ad Eugenio, Ugo e Anselmo non rimase che obbedire e con le teste chine
ed un muso lungo fino alle ginocchia si avviarono. Eugenio aprì
la porticina e, trovato un interruttore, accese la luce. Una scala di
legno stretta scendeva verso un pavimento di mattoni dove si ritrovarono
riuniti, uno a fianco all'altro. La cantina era ingombra di cianfrusaglie
ed aveva un'unica finestrella chiusa con una rete e larga appena una
trentina di centimetri. Non scambiarono una sola parola mentre sentivano
la chiave girare nella toppa, accompagnata dalla risata soddisfatta
del giovanotto. Rimasero zitti finché non udirono i suoi passi
allontanarsi e solo allora Anselmo raggiunse la finestrella.
<<Io di qua ci passo, se mi sollevate da terra vado fuori e chiamo
la polizia.>> propose.
<<No, non chiamarla, altrimenti finiamo al fresco anche noi. Esci
e da fuori fai credere loro che c'è qualcuno al cancello. Suona
a lungo il campanello e saranno costretti a rimanere ancora qui.>>
Era impensabile ascoltare delle proposte intelligenti da uno come Eugenio
ed i suoi due amici rimasero a bocca aperta, profondamente stupiti,
quasi sconcertati nello scoprire che il loro capo era veramente un genio.
<<E poi cosa facciamo, aspettiamo che ammazzino Ottone?>>
domandò il piccoletto.
<<Non credo che lo faranno qui, in ogni caso potresti tentare
di aprire la porta della cantina e liberarci.>>
<<Ma se rientro dal retro sentiranno cigolare la porta.>>
obbiettò l'altro.
<<Ha ragione, farebbe troppo rumore. La porta della cantina è
tutta sgangherata e forse qui troviamo qualche attrezzo per aprirla
dall'interno.>> propose Ugo. Pure lui per induzione era stato
colto da un'idea sensata.
Non c'era altro da fare, l'importante era impedire ai due assassini
di portare via Ottone e di ammazzarlo. Aiutarono Anselmo che, rotta
la rete leggera e non senza qualche difficoltà, riuscì
a passare per il pertugio e sparire in giardino. Poi, Eugenio e Ugo
si misero a cercare qualcosa per aprire la porta e quando suonò
il campanello lo fece con una tale insistenza da dare sui nervi pure
a loro.
Nel frattempo, in sala da pranzo Ottone stava piagnucolando nel vano
tentativo di intenerire i suoi carcerieri, ma otteneva in cambio solamente
degli sguardi ironici. Sguardi che cambiarono immediatamente non appena
il campanello iniziò a suonare. I due sbiancarono di colpo e
si guardarono smarriti e per aumentare il panico che li stava prendendo
dal corridoio giunse il secco rumore di una porta di legno che si stava
sfasciando. I prigionieri della cantina si stavano liberando.
Ottone, non più sotto il tiro delle pistole, preso da un'improvvisa
smania di movimento e senza nemmeno abbassare le braccia partì,
pancione in resta, sparato verso la porta travolgendo la
coppia come un direttissimo che incontra un carretto posto di traverso
ad un passaggio a livello,. Fu una collisione memorabile, degna di essere
annotata negli annali degli incidenti ferroviari. I due furono letteralmente
sbattuti da parte contro il tavolo da pranzo dove atterrarono in un
groviglio di braccia, gambe, vasellame stoviglie e pistole. Non ebbero
nemmeno il tempo di riaversi che Eugenio ed Ugo irrompevano nella camera,
afferravano le armi e le puntavano verso i due assassini.
Alla compagnia si aggiunse anche Anselmo, annunciato dal cigolio della
porta su retro. La banda del Tulipano Nero aveva nuovamente in mano
la situazione e nell'aria c'era una soddisfazione che si poteva toccare.
Altro che carciofi, i nostri si erano riscattati di tutti i commenti
ridanciani delle altre bande del quartiere. Peccato non poterlo raccontare
in giro! Un vero peccato. Ma quella serata andava tenuta assolutamente
segreta anzi, se possibile, dimenticata.
Legarono strettamente i due prigionieri, raccolsero i loro sacchi vuoti,
gli attrezzi e le torce elettriche, poi, senza nemmeno prendere la borsa
della ragazza piena di monete e gioielli e nemmeno le pistole che lasciarono
tra gli avanzi del pollo, scapparono dalla villa, non senza massacrarsi
sulle spine di rose della recinzione.
Avevano rinunciato al bottino a malincuore, ma era meglio non avere
nulla a che fare con due morti ammazzati. Il nipote e la ragazza non
avrebbero mai potuto invischiarli, nemmeno sapevano i loro nomi e poi
a che fine? Nessuno avrebbe mai potuto credere che a far fuori i due
anziani fossero stati quattro balordi che nessuno prendeva neppure in
considerazione. Inoltre, per liberarsi dalle corde i due assassini ci
avrebbero messo delle ore, almeno fino a giorno fatto e qualcuno li
avrebbe certamente notati, forse la cameriera o il giardiniere. Insomma,
per loro sarebbe stato molto difficile farla franca.
La realtà non fu diversa dalle supposizioni appena fatte. L'appresero
la sera seguente sul giornale del pomeriggio e lo sentirono anche alla
radio. Alle nove del mattino il postino notò un'auto uscire dalla
villa, un'auto diversa da quella dei proprietari e poco prima aveva
notato, passando dietro la casa, la porta con un vetro rotto. Il solerte
discendente di Mercurio sommò due più due, annotò
la targa dell'auto ed il modello sul retro di una raccomandata ancora
da consegnare e telefonò subito alla polizia da un telefono pubblico.
Nipote e amichetta furono intercettati al casello dell'autostrada e
riportati alla villa. Facile immaginare il resto. I due anziani assassinati,
la cassaforte aperta, monete antiche e gioielli nella borsetta della
ragazza e nel cruscotto dell'auto due pistole unte di sugo di pollo,
le armi del delitto. A nulla servirono i vaneggiamenti dei due fermati
che invano cercavano di scaricare la colpa su quattro fantomatici spazzacamini.
Nessuno prestò fede alla loro storia.
<<Avrei
un'idea per un colpo fenomenale.>> annunciò Eugenio, dopo
aver piegato il giornale. <<C'è un magazzino di apparecchi
radio e televisori proprio in un luogo isolato
<<S'interruppe
di colpo: tre paia di occhi accigliati lo stavano osservando in silenzio.
Ugo aveva le orecchie rosse come un carro dei pompieri e scuoteva sconsolato
la testa, Anselmo si rosicchiava le unghie guardandolo torvo, mentre
Ottone cambiò lo sguardo serio in un risolino che si stava trasformando
in una risata cavernosa. Fu costretto a trattenersi la pancia.
<<Ho capito. Allora che si fa per il futuro?>> domandò
il capo dei Tulipani, infilando le mani nelle tasche del giubbetto mentre
si dondolava sui talloni.
<<Le giacche le abbiamo, ci procuriamo le scarpe da ginnastica,
le magliette, i calzoncini e mettiamo su una squadretta di basket. Il
nome l'abbiamo già. Dobbiamo trovare solamente degli altri giocatori.>>
propose Ugo, agitandosi eccitato come un pioppo al vento.
<<Non sarebbe meglio una squadra di biliardo?>> fece Anselmo,
preoccupato per la sua miserevole statura <<Io, come ci arrivo
a canestro?>>
<<No. Meglio una squadra di rugby!>> intervenne Ottone,
ancor più ringalluzzito. <<Io mi piazzo all'attacco e vi
stiro tutti gli avversari!>>
Continuarono a discutere finché, esausti e affamati, raccolsero
i pochi spiccioli dispersi nelle tasche dei jeans. Erano appena sufficienti
per quattro pizze e quattro bibite, ma si poteva desiderare di più?
Sì. Quattro ragazzine di quelle che li ammiravano e sanno di
doversi pagare le pizze e da bere di tasca loro. Chissà se avevano
anche qualche idea brillante da sfruttare per far diventare famoso il
simbolo dei Tulipani Neri?
paolo
carbonaio