oppure
vai a:


Missione in India di Humbert du Charbon

Ugo Mursia Editore - ISBN88-425-3258-4

Intervista tratta da: guide.supereva.it/libri_autori/interventi di Lidia, pubblicato il 2 febbraio 2005 in: Recensioni

Missione in India
- Con Missione in India, edito da Mursia, si conclude la cosiddetta "saga di Hathor", un ciclo di quattro romanzi che, nel corso degli anni, hanno visto il protagonista, Peter Perkin, navigare, combattere ed affrontare mille pericoli a bordo di un vecchio dhow, nei mari orientali, con l'aiuto dei fedeli Malik, Abdul e Alì.
Questa volta, è il passato a ritrovare Peter Perkin, che smette di nascondersi e di fuggire, decidendo di affrontarlo, pronto a difendere il suo futuro. L’amore che lo ha sostenuto in tanti anni, il dolore che si è coltivato dentro, non è più lo stesso, ma si è trasformato nel fantasma di qualcosa che il tempo ha ormai dissolto. Un amore tenuto in vita perché creduto indispensabile per la sopravvivenza. Alla fine del viaggio Perkin ritrova la serenità e, con essa, la vera libertà, quella dentro di sé. Comprende anche che se essa ha bisogno di spazi infiniti come gli oceani, deve prima essere dentro di noi, nelle nostre idee nel nostro sincero e irrefrenabile bisogno di migliorare e per poterla comprendere e vivere è necessario conoscere noi stessi, i nostri limiti e le nostre potenzialità.
Missione in India, come i precedenti romanzi, sono stati scritti da Paolo Carbonaio, un ex navigatore dai mille interessi, con uno pseudonimo abbastanza curioso, Humbert du Charbon. Ora, pero, è giunto il momento di riappropriarsi del suo nome e, con esso, della sua identità di autore italiano. Un’identità che, naturalmente, non aveva mai rinnegato, ma che ora più che mai, può e deve riaffermare.
La tragica attualità di alcuni temi trattati nei suoi romanzi, le motivazioni che sostengono le trame dei romanzi ed i realistici tratti psicologici dei personaggi ci offrono lo spunto per un approfondimento.

Intervista all’autore - Paolo Carbonaio alias Humbert du Charbon

Lidia - Tu hai viaggiato molto per mare: perché hai scelto proprio un dhow arabo come “casa” per i tuoi personaggi?

Paolo - Il mondo che fa da palcoscenico alla vita e alle avventure dei personaggi della Saga di Hathor è una barca che ha alle spalle una storia vecchia, antica come la voglia dell’uomo di affrontare l’ignoto, di allargare i suoi orizzonti, di lasciare la propria terra per scoprirne di nuove e di commerciare.
Una barca, un dhow, che è stata testimone di importanti momenti della storia in una parte del mondo dove civiltà sono nate e scomparse, dove si è commerciato di tutto, dalle spezie agli schiavi, dove si sono originate le stesse religioni e si sono confrontate tra loro. Ma è anche lei stessa un personaggio con un suo carattere ed il nome stesso lo conferma: Hathor divinità femminile egizia che rappresenta la parte positiva della vita, che genera essa stessa la vita e fa da nutrice agli uomini. Per il suo equipaggio è casa e affetto, sicurezza e orgoglio, strumento per non subire la vita e cercare la libertà e, nel contempo, un rifugio sicuro.
A bordo vivono uomini diversi con esperienze diverse e fedi diverse ma uniti nel solo ideale che è in grado di renderli Uomini: il rifiuto delle prevaricazioni, la forza di ribellarsi alle ingiustizie, l’accettare gli altri in cambio dello stesso rispetto, l’amore per la natura e il diritto di migliorare la propria esistenza.
Su questa barca si svolge il viaggio di un uomo, Peter Perkin, il percorso della sua maturazione, in quattro fasi che distinguono i quattro punti saldi che permettono alla specie umana di elevarsi, di progredire intellettualmente: la libertà, l’amicizia, la tolleranza e, per finire, la conoscenza di se stessi.

Lidia - Puoi descrivere, allora, i protagonisti?


Paolo - Peter Perkin è un europeo senza alcun interesse religioso, chiuso in se stesso col rancore per le sue disgrazie; vive nell’autocommiserazione, non si rende conto che qualsiasi fuga metterà in atto, la sua solitudine continuerà ad imprigionarlo. Solo la conoscenza dei suoi nuovi compagni, cane compreso, riuscirà a far scattare il meccanismo alla serratura della sua prigione, aprendogli un mondo nuovo, rischioso ma vivo e reale. Un mondo diverso dove non può più vegetare e nascondersi anche a se stesso, e nemmeno dietro una bottiglia.
Abdul, musulmano colto e di mente aperta, oltre che furbo, riesce, con la scusa di “educarlo” alla vita di quella zona, a fargli vedere che uomo è, quanto sia caduto in basso, risveglia il suo orgoglio e con esso la voglia di vivere. Una specie di scuola, fatta di battute, Sure del Corano e commenti ironici che svelano a Perkin quella libertà di pensiero e di azione che gli anni avevano assopito. Gli fa ritrovare anche una gioventù ormai dimenticata.
Malik, gigante buono, ignorante e con una vita passata di miseria e sofferenza come fellahìn, contadino del Nilo, gli fa scoprire la natura, l’amore e il rispetto per essa, la sua infinita bellezza.
Alì, il cane bastardo, invece, gli insegna l’amicizia, quella che solo un cane può dare, dove i silenzi sono discorsi e una carezza dà il calore dell’amore.

Lidia - Quindi, nelle tue intenzioni, ognuno di essi rappresenta qualcosa di più di un diverso soggetto umano?

Paolo - Ognuno dei quattro personaggi rappresenta caratteri diversi dell’Uomo. In un articolo su di me si è scritto che, se è vero che nei personaggi di un romanzo c’è sempre qualcosa dell’autore, allora nei miei ci sono io, diviso tra tutti. Non so se sia così, ma ammetto sinceramente che per ognuno ho descritto azioni, pensieri e sentimenti che sentivo spontanei e che credo avrei avuto anche io se mi fossi trovato nei loro panni. In Perkin io vedo l’uomo ancora giovane d’animo, sbruffone, che non sa prendere nulla sul serio, che si arrabbia per cose che non hanno valore, che s’innamora facilmente e facilmente resta deluso, ma non impara, che non bada al denaro e vive da cicala in un mondo di formiche. Nemmeno le sue disgrazie l’hanno saputo far maturare.
Abdul invece è la coscienza, l’esperienza della maturità, colui che ha compreso che prima di parlare bisogna pensare, collegando sempre la lingua al cervello e lo fa capire citando il Corano, con i suoi consigli, con il suo agire cauto ma determinato.
Malik, invece, è una forza distruttrice che si vendica indiscriminatamente dei torti subiti, ma liberatrice, che rifiuta la prepotenza e difende i deboli col suo amore per i bambini e gli animali. Un’anima in sé candida, semplice, che crede nella forza più che nella parola e che, anche quando si batte, non è capace di provare odio ma solamente rabbia.
Alì, il cane, ultimo componente dell’equipaggio, è colui che più di tutti ha bisogno del branco, del calore del gruppo, e divide con i suoi compagni ogni momento, sia brutto sia bello. Un amico devoto e fedele su cui fare sempre affidamento e che tutti noi vorremmo avere sempre accanto.

Lidia - Hai scelto di ambientare i romanzi nei luoghi che tu hai potuto conoscere durante i tuoi viaggi, ce ne vuoi parlare?

Paolo - L’Africa e l’Arabia di Hathor è la stessa da centinaia e centinaia di anni. Violenza e miseria caratterizzano la costa come l’interno. Basta pensare al Sudan di oggi e scopriamo che è lo stesso del periodo colonialista inglese. Anche allora esisteva l’odio verso gli occidentali e i Cristiani, odio fanatico e religioso nato nella fede islamica. Quella volta c’era il Madi e sembrava una lotta di liberazione, però non era diversa da oggi dove la popolazione islamica massacra quella cristiana.
Certo, anche la colonizzazione ha avuto la mano pesante e non va dimenticato, però non si dovrebbe dimenticare nemmeno che è proprio nell’interpretazione che si dà al Corano che nasce l’intolleranza e l’integralismo, ora così apertamente manifeste e non si può parlare solo di giusto odio verso gli occidentali colpevoli di violenze e di sfruttamento. Se poi consideriamo come i loro stessi governanti e sceicchi si arricchiscono ignorando le necessità dei loro popoli, mi pare che, dopotutto, la loro vita non sia migliorata granché. Ricordo anche che negli anni sessanta, quando navigavo lungo l’Africa Orientale, le uniche strutture erano state costruite sotto la “crudele” colonizzazione italiana e sia Somali che Eritrei parlavano perfettamente la nostra lingua, bambini compresi e nessuno si è preoccupato di continuare a costruire dopo la caduta dell’impero italiano. Anche oggi, rivedendo quelle zone alla tv, non mi sembra che la situazione sia migliorata molto, nonostante le promesse e la propaganda che già ai miei tempi facevano le potenze del blocco comunista, oltre ad una copiosa vendita di armi.

Lidia - Da che cosa deriva questo odio, secondo te?

Paolo - E’ sbagliato dire che questo odio deriva esclusivamente dalla violenza subita dagli occidentali e dal loro sfruttamento di risorse. Esso è sempre esistito perché, sebbene leggendo le parole del Profeta sembra che per un musulmano ognuno ha diritto al suo credo, in realtà non è così e la Guerra Santa, la Jihàd, che dovrebbe essere l’impegno a propagandare la parola di Dio diventa guerra di conquista, conquista e rifiuto delle altre fedi. Basta vedere cosa capita nei paesi musulmani oggi, ma basta pensare anche a quello che è avvenuto nei secoli passati. L’Islam si è accaparrato buona parte dell’Africa, tutto il Medio Oriente (escludendo Israele) e poi si è diffuso in India e in Oriente. La sua non è un’invasione per il potere economico che ne consegue, ma per quello religioso, perché l’Islam non distingue tra potere politico e potere religioso e le scuole coraniche preparano i giovani - è sempre stato così - ad applicare sempre e senza nessuna possibilità di interpretazione personale le leggi sacre e nemmeno di raffronto con altre religioni.
Il fondamentalismo islamico, dopotutto, è il ritorno alle origini, con l’unione indissolubile tra religione e organizzazione statale. Il rifiuto assoluto della cultura occidentale e l’elevazione a leggi dello stato dei concetti giuridici della sharìa.

Lidia - Che futuro riesci a vedere a questo proposito?

Paolo - Oggi, con l’immigrazione, l’Islam si sta diffondendo in tutta Europa. Un processo naturale e accettabile solo sulla base di un’integrazione degli Islamici nella nostra cultura. E’ necessario che accettino le nostre leggi e la nostra civiltà, ma a volte ciò risulta difficile perché è la loro stessa religione che non lo permette, ne fa una comunità chiusa e, salvo pochi casi, impenetrabile ad ogni influenza esterna. Non va dimenticato che Mussulmano (Muslim) è colui che si dedica completamente a Dio, mentre il significato di Islam è religione verso Dio, sottomissione, dedizione Io che ho vissuto in queste comunità quando ero in Africa Orientale, ho avuto amici Islamici, ma c’era sempre qualcosa che ad un certo punto ci divideva nella mentalità e nel concetto di libertà e diritti. E la cosa che mi ha fatto pensare è che da parte loro non c’erano cedimenti o dubbi e nemmeno gesti spontanei per trovare un equilibrio. Nessuna concessione per amicizia, perché alla fine faceva testo la Scrittura, senza possibilità di accomodamenti. A cedere o rinunciare dovevo essere io anche per non “offendere” il loro Credo.

Lidia - Si può dire che in questi romanzi hai creato un tuo personale ‘paradiso terrestre’?

Paolo - Con Hathor ho creato una comunità nuova
e con Abdul un fedele con cui discutere, un uomo tollerante e sinceramente credente, ben sapendo che nella realtà non so quanto sia facile trovarne uno simile. Ho voluto forzare la realtà, ma l’ho fatto istintivamente, adattandola al mio modo di pensare e vedere la religione. Inoltre, considerando che il personaggio principale, Peter Perkin, racconta la storia in prima persona, gli ho affiancato dei compagni come quelli che io al posto suo avrei desiderato a bordo. Oltre a ciò, ho imbarcato un cane, un animale “impuro”, facendone uno dei personaggi, uno dell’equipaggio e gli ho dato per migliore amico un musulmano, Malik.

Lidia - So però che hai avuto qualche problema.

Paolo -Per il cane Alì sono stato criticato e un paio di volte anche minacciato, così come per alcuni articoli che ho scritto nel mio sito. Ho scoperto che, anche lasciando da parte il vero integralismo, quello che oggi ha creato la situazione attuale di assoluta violenza, l’Islam fatica ad accettare una seppur scherzosa stravaganza, così come l’umorismo o l’ironia. L’autoironia, poi, è inesistente.
Sinceramente, non credo di aver offeso nessuno e nemmeno di essere stato blasfemo, ma ho voluto dare una mia personale versione di come vorrei gli uomini: liberi di pensare e rispettosi dei diritti di ognuno, animali compresi. Forse, con quanto vediamo accadere oggi nel mondo, vorrei che la violenza del terrorismo, ma anche l’esaltazione delle folle per questi atti ignobili, abbia come antitesi l’equipaggio di Hathor. Non è solo con la forza che ci possiamo opporre a tanto odio, ma anche suggerendo modelli positivi, come Abdul o Malik. Io sono certo che molti islamici non avrebbero nulla da obiettare e sicuramente ce ne sono molti che potrebbero identificarsi in loro. Ebbene, io vorrei che anche questi siano attivi nel contrastare l’integralismo, nell’opporsi alla violenza e nel combatterla, e non solo nel dissociarsi.
E poi ci sono le pratiche religiose come le pene capitali (la lapidazione delle donne, per esempio), oppure l’infibulazione, oltre alla condizione generale della donna nelle comunità più integraliste che risvegliano in me la più ferma indignazione. Sono argomenti che non ho affrontato nei miei romanzi, perché fuori dal loro contesto. Chiariamo che il mio equipaggio non è un gruppo di maschilisti, al contrario. Però la situazione non lo richiedeva e mi sono limitato a creare un personaggio femminile, una schiava liberata, sulla quale riversare l’amore e un paterno desiderio di protezione da parte dei miei personaggi.

Lidia - Ti sei dovuto documentare in modo approfondito per evitare ulteriori difficoltà?

Paolo - Scrivendo Hathor, nel 1998, mi sono documentato sul mondo islamico e in particolare su quello dell’Africa Orientale. Anche se l’avevo visto con i miei occhi, ero un ragazzo e sicuramente molte cose non le avevo comprese. Mi sono letto il Corano e altri testi esplicativi cercando in cosa l’Islam trovi tante certezze assolute e tanta unità. Ebbene, salvo alcune Sure sulle donne, sugli infedeli e sugli animali che dalla prima lettura sembrano veri e propri diktat particolarmente duri e intolleranti (secondo il mio metro, naturalmente), se non violenti, tutto mi è sembrato accettabile e abbastanza “liberale”. Ma sbagliavo. Sbagliavo perché ero io, come lettore, sbagliato.

Lidia - In che senso?

Paolo - Ero “sbagliato” dal loro punto di vista. Io sono di religione Valdese, ho studiato nelle scuole cattoliche dello stato, ho amicizie di religione ebraica, per ognuna di queste fedi ho discusso e ascoltato e, importantissimo, tutto ciò che ho letto in materia non mi è stato “spiegato” ma ho avuto sempre la massima libertà d’interpretazione. Libertà con la quale ho affrontato il Corano: leggevo e ragionavo con la mia testa. Non l’ho imparato a memoria da ragazzino, nessuno me lo ha interpretato o “imposto”. I rari, rarissimi, commenti che ho potuto leggere, li ho presi col beneficio d’inventario e, cosa più importante, la mia è stata una lettura libera da qualsiasi condizionamento, da “esterno”.
Così, mentre scrivevo, mi “istruivo” sul Corano e creavo la figura di Abdul e di Malik: se volevo uscire dallo schema della pura avventura e ragionare un po’ con i personaggi, dovevo sapere qualcosa di più sul quel mondo che avevo visto e conosciuto negli anni sessanta da ragazzo. Dovevo cercare di “capirlo”.
Il grande terrorismo di oggi non c’era ancora o se ne conosceva poco. Solo col secondo romanzo, leggendo di fatti sanguinari avvenuti nel mondo e ripensando alla guerra tra Israele e i Paesi Arabi (guerra che avevo sfiorato navigando) e al terrorismo Palestinese, ho voluto inserire un terrorista tra i personaggi “cattivi” e, con lui, le due spade che invece che dividere dovevano unire idealmente le tre religioni monoteiste. Però in tutti e quattro i libri ho cercato di rendere umana la religione e in particolare l’Islam, l’ho fatto come uomo che di religioni non ne ha alcuna e che è convito che spesso a dividere gli uomini e renderli violenti è proprio la religione. Ho cercato di portare l’uomo a dio, più che il contrario, quindi, al suo miglioramento spirituale e intellettuale, dando ad Abdul la figura del saggio, del mentore e a Peter - quella a me più congeniale - dello scettico e del miscredente.
Il risultato è stato un mondo islamico a mia misura, sulla Hathor naturalmente. Purtroppo invece le cose stavano cambiando e la situazione è andata facendosi così precaria ed esplosiva, da rischiare veramente uno scontro mondiale tra religioni e civiltà: abbiamo di fronte un futuro assai oscuro e certamente non facile.

Lidia - In effetti le cose sono molto peggiorate negli ultimi tempi: qual è stata la tua reazione, dal punto di vita di scrittore?

Paolo - Dopo l’11 settembre 2001, prima di scrivere Missione in India, ero molto tentato di tornare sul tema del terrorismo; però ero, e sono, ancora talmente sconcertato dei fatti di New York che non me la sono sentita. Oggi, con tutto quello che è seguito alle Torri, compresi gli ultimi atroci fatti di Beslan, potrei anche farlo, ma non per dar vita ad una delle tante storie dove il super eroe sconfigge il super terrorista. Vorrei qualcosa di diverso che, oltre all’azione, al bene che vince sul male, dia risalto ai personaggi, cercando anche di capire e descrivere ciò che possono avere “dentro” uomini come Bin Laden e i tanti fanatici che si uccidono per uccidere. Non solo fanatismo religioso, ma quel qualcosa di più profondo che a prima vista sembrerebbe solo Odio Assoluto. Non mi basta questa loro morbosa e inumana visione dell’Islam, perché non posso credere che sia questo l’Islam. Nemmeno posso pensare che uccidersi sia la sola applicazione della volontà divina o il modo per assicurarsi un futuro in paradiso tra le Hùri. C’è qualcosa ancora, qualcosa che ci farebbe comprendere meglio questo irriducibile fanatismo, questo concetto della morte a noi estraneo.
Ma, tornando alla saga di Hathor, non sarebbe stato possibile inserire nella storia i fatti odierni, perché le avventure dell’equipaggio del dhow si svolgono alla fine degli anni sessanta, periodo in cui questa forma di terrorismo ancora non si conosceva.
In Missione in India ho pensato, quindi, di mettere di fronte al saggio Abdul un nuovo personaggio positivo, Canna, uno Yògi, un personaggio che con la sua religione stemperi quella ben diversa di Abdul. Un modo anche per mettere Peter in condizione di affrontare il suo passato e in un Paese nuovo, l’India.
In ogni romanzo gli uomini del dhow hanno dovuto affrontare un aspetto diverso del Male. In Hathor, contrabbandieri d’armi, lo schiavismo, vecchi nazisti, in Mar Rosso, l’odio del fanatismo religioso, in Oceano, la Mafia Giapponese e in Missione in India, nuovamente il nazismo.
Ma in tutti, il vero Male è quello che permette un Mondo con i ragazzini cenciosi di Massaua, con i diseredati cronici che, come allora, vediamo oggi sugli schermi della tv, con l’aridità della terra, la miseria della gente, intere popolazioni senza speranza, la schiavitù che ancora esiste e l’odio razziale, religioso tra etnie diverse.
In definitiva, forse, servirebbero più uomini come Abdul e Malik e meno capi spirituali, Imam e Yatollà.


oppure
vai a:



Questo sito con gli scritti e le immagini che lo compongono
è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons
Creative Commons License