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- La nave del Tempo
L'ultima terra distava tre giorni di navigazione e
il mondo attorno era nuovamente composto di spazio infinito e silenzio.
Non ero sbarcato a sentirne il profumo, assaggiare cibi freschi e bere
acqua di fonte, neppure avevo incontrato altri esseri viventi, ascoltato
voci oppure il canto degli uccelli.
C'ero solamente passato accanto, a poco più di un miglio di distanza,
immerso nel buio della notte e immaginando tutto questo. Mi ero illuso
di poter sbarcare dimenticando per qualche ora l'isolamento dell'oceano.
Sapevo che avvicinandomi alla costa sarebbe stato solo un'illusione
e nulla più, ma per un po' mi era sembrato di poter dimenticare
il passato e credere in un altro futuro.
Ora avevo nuovamente attorno solamente acqua, l'Atlantico con le sue
onde lunghe che ne increspavano la superficie e avevano il freddo colore
dell'acciaio. Qua e là, un batuffolo bianco di spuma ne rompeva
la monotonia, dando l'impressione d'un infinito pascolo di pecore migranti.
Il cielo era terso e a oriente alcuni uccelli lo attraversavano, piccole
macchioline nere appena visibili che sarebbero presto scomparse lasciando
solamente il vuoto.
La poca terra che avevo avvistato, appena rischiarata dalla luna, mi
aveva lasciato dentro una sensazione di vuoto. C'ero passato accanto
solo per guardarla, per osservare la riva e le onde che vi si frangevano
e con il binocolo avevo cercato di avvistare qualche segno di vita,
la presenza della gente, una luce, ma non avevo visto nulla a parte
una spessa linea nera a rompere l'orizzonte.
La mia navigazione non prevedeva contatti. Non dovevo farmi notare,
anche se ero certo che nessuno avrebbe potuto lontanamente immaginare
dove mi trovavo in quel momento, o che ero io quella macchiolina più
scura della notte. Questa certezza era la forza che mi permetteva di
continuare e accettare la mia solitudine. Sapere di essere scomparso
nell'infinito nulla dell'oceano, finché il mio nome sarebbe finito
nell'oblio della dimenticanza.
La mia partenza era stata certamente scoperta e così il naufragio,
un naufragio fasullo che avrebbe tratto in inganno chiunque. Per il
mondo ero morto in mare e speravo che nessuno si sarebbe preso più
il disturbo di cercarmi.
Erano passati quaranta giorni da quando avevo lasciato il porto della
mia città e sapevo che non vi sarei mai più ritornato.
Quello che abbandonavo non contava nulla e quello che mi aspettava,
lontano di prora, sarebbe stato certamente migliore, anche se al momento
desideravo solo sicurezza e un po' di tranquillità. Ma per avere
almeno questo, ne avevo di miglia ancora da percorrere, mezzo mondo
almeno, una distanza che consideravo appena sufficiente per salvarmi
la pelle.
L'alba del quarantunesimo giorno mi accolse con un vento gagliardo
che spazzò via la tristezza della notte ed i fantasmi dei ricordi
svanirono, impallidendo alla luce del sole nascente. L'onda lunga, ravvivata
dal vento, si divertiva a far scivolare lo scafo su di un largo lenzuolo
di spuma, lavorato come uno scialle castigliano. Procedevo al lasco,
in uno spazio infinito sotto un cielo sgombro, a parte una linea di
nuvole rosate verso oriente dove, ormai oltre l'orizzonte c'era l'Africa
che durante la notte avevo sfiorato.
Diretto vero Sud, volevo abbandonare l'Atlantico per raggiungere l'Oceano
Indiano. Forse, ma non avevo ancora deciso, avrei accorciato il percorso
accostando ad Est per avvicinarmi al continente e doppiare il Capo di
Buona Speranza. Forse.
Dopotutto, non avevo fretta e nessun impegno né un orario da
rispettare. Avvicinarmi al Sud Africa era una questione di prudenza,
per non doppiare il continente troppo a meridione rischiando di incappare
in venti troppo forti o peggio in qualche tempesta. Anche se seguivo
le rotte commerciali, raramente incrociavo delle navi a una distanza
inferiore al miglio, distanza che non avrebbe permesso a nessuno di
poter descrivere bene la mia barca ed era anche sufficiente ad evitare
qualsiasi contatto troppo ravvicinato che mi obbligasse ad uno scambio
di saluti.
Trascorsi così l'intera giornata al timone, fantasticando sul
mio futuro di fuggiasco ed evitando accuratamente di rivivere con il
pensiero i fatti che mi avevano portato sul mare, a bordo di una barca
a vela di dodici metri.
Quello che, già il mattino, sembrava un insignificante puntino
di poppa, con il passare delle ore si era fatto sempre più grande
e verso il tramonto riuscivo ormai a distinguerlo perfettamente: era
un tre alberi che navigava a piene vele. Seguiva una rotta come la mia
ma era più veloce e mi avrebbe sicuramente raggiunto durante
la notte. Immaginavo gli uomini a bordo intenti a regolare la velatura
e altri a poppa presso la ruota del timone, mentre l'oro colato del
sole al tramonto illuminava i loro volti abbronzati e segnati dall'aria
salina. Loro non erano soli come me e per un attimo li invidiai.
A mezzanotte il veliero mi aveva raggiunto e si trovava ad una distanza
troppo corta che contrastava con il mio bisogno d'anonimato. Silenzioso
come un grosso pesce e più nero della notte che ci avvolgeva.
Nessuna luce a bordo, nessuna voce e le sue vele scure mi ricordavano
le ali di un pipistrello.
Mi sorprese il suo arrivo così repentino. Avevo stimato che mi
avrebbe raggiunto almeno tre ore più tardi, dandomi tutto il
tempo per deviare e allontanarmi dalla sua rotta, e invece eccolo lì,
a poche centinaia di metri di poppavia che si stava avvicinando sempre
più. Tra poco l'avrei avuto al traverso di dritta perché
sembrava intenzionato a superarmi di sopravvento e appena il suo lungo
bompresso giunse all'altezza del mio giardinetto di poppa, presi il
binocolo per osservarlo attentamente.
Era una goletta di circa cinquanta metri di lunghezza, armata con grandi
vele auriche e due fiocchi sul bompresso. Lo scafo nero come la pece
scivolava muto sull'acqua poco più chiara. Come me, prendeva
il vento da dritta e la sua inclinazione mi permetteva di notare l'ampia
coperta con la baleniera rizzata a mezza nave.
Non c'era nessuno in coperta, nemmeno un'anima, nemmeno quella del timoniere
la cui testa sarebbe dovuta sporgere da dietro il cassero, a poppavia
del quale doveva esserci la ruota del timone. La goletta appariva deserta
e completamente priva di luci come di riflessi e se qualcuno mi stava
osservando, di certo si teneva ben nascosto.
Era uno spettacolo che più che soddisfare la mia ammirazione
per le vele d'epoca, metteva dentro un brivido e sentivo la fronte imperlata
di sudore freddo. Istintivamente poggiai, portando la prora sottovento
per aumentare la distanza tra noi e permetterle di superarmi con un
buon tratto di mare a dividerci.
Stavo regolando le scotte, quando un debole cigolio animò la
goletta. Qualcuno stava manovrando sulle vele e mi resi conto con sgomento
che anche la goletta aveva poggiato e la distanza tra noi era ancora
diminuita.
Ora si trovava al mio traverso.
La sua, era stata una manovra fatta con l'intenzione, non c'erano dubbi,
di braccarmi. Rimasi nell'attesa di udire una voce umana, un grido portato
dal vento. Quando mai si erano viste due vele che s'incontrano in mare
aperto e non si scambiano almeno una voce di saluto?
Un nuovo cigolio di cavi che scorrevano nei bozzelli m'informò
che a bordo qualcuno stava sventando le vele per diminuire la velocità
e regolarla alla mia.
Ora navigavamo paralleli, a circa sei nodi. Tra noi scivolava un fiume
d'acqua scura largo appena un centinaio di metri e ancora non scorgevo
nessuno dell'equipaggio e nemmeno udivo un qualsiasi grido di richiamo.
Avevo un ottimo binocolo e per un'ora non lo staccai dagli occhi, ma
in quei sessanta interminabili minuti nulla mutò la situazione.
Ero esasperato e una mano invisibile mi stringeva il plesso solare,
impedendomi di respirare.
Avevo appena deciso di virare, strambando, per allontanarmi da quella
ossessiva e silenziosa presenza, quando un'esplosione mi fece sobbalzare
il cuore nel petto: era una cannonata.
Sbalordito, voltai lo sguardo verso prora e vidi una colonna d'acqua
che si sollevava e un pulviscolo umido mi raggiungeva fino a poppa,
mentre il mio scafo passava sulla macchia spumosa e fosforescente che
segnava il punto in cui la palla era affondata.
Guardai allibito la goletta e sulla murata riuscii a distinguere un
debole sbuffo di fumo trascinato dal vento uscire da un portello aperto
che prima non avevo notato. Quei pazzi indemoniati mi stavano prendendo
a cannonate e con quella appena esplosa forse mi stavano intimando di
fermarmi.
Essere preso a cannonate da un veliero nel ventesimo secolo, era una
possibilità che non avrei mai potuto concepire, nemmeno forzando
la mia fantasia.
Non potevo fare altro che obbedire e non pensai nemmeno di fuggire
o di difendermi. Con che cosa poi? Con la pistola Very, la lancia razzi?
Sparandogli un razzo contro? Di fronte ad un cannone non si discute
ma si obbedisce.
Stavo sciogliendo le scotte dalle castagnole per sventare le vele e
portare la prora al vento e fermarmi, quando una seconda cannonata partì
dalla goletta e con un fischio stridente la palla troncò di netto
il mio unico albero.
Non lo potevo certo considerare un secondo avvertimento. L'intenzione
era chiara: volevano affondarmi. Il primo istinto fu di mettere in moto
il Diesel ed allontanarmi immediatamente. Era un motore potente che
mi permetteva di raggiungere i dodici nodi. Sarei riuscito a distanziarli,
prima che cambiassero le mura per inseguirmi e, in ogni caso, ero certo
che a vela avrebbero proceduto più lentamente di me. Avrei zigzagato
per evitare di incassare un terzo colpo.
Lo pensai per un decimo di secondo, ma rimase solamente un pensiero.
L'albero abbattuto sul fianco sinistro pescava in mare con tutte le
vele ed i cavi d'acciaio delle sartie e se avessi messo in moto, ingranando
la marcia avanti, avrei fatto ben poca strada prima di rendere inutilizzabile
l'elica che si sarebbe fatta avvolgere dai cavi.
Ero costretto a rimanere fermo, a rollare, come un bersaglio da esercitazioni
alla mercé di un veliero armato.
Intanto la goletta si stava allontanando, spinta dal vento sulle vele.
Vedevo lo slancio di poppa e la pala del timone che lasciava dietro
di sé una scia opalescente.
Tutto era avvenuto in una manciata di secondi e ancora non riuscivo
a riprendermi dalla sorpresa. Immobilizzato, con le mani strette attorno
al freddo metallo della ruota del timone, rimasi a guardare il mio nemico
che rimpiccioliva scomparendo nella notte.
Non ricordo se passarono minuti oppure ore, ma ad un certo momento riuscii
a scuotermi dallo scoramento che m'aveva preso. Non avevo tempo da sprecare:
dovevo subito liberarmi dell'albero e filarmela a motore scomparendo
nel buio della notte. Non sapevo se il veliero avesse inteso continuare
sulla sua rotta o sarebbe ritornato per finirmi, ormai l'oscurità
l'aveva inghiottito ed io ero fermo a galleggiare come un gabbiano con
le ali spezzate. Una preda troppo facile anche per un ragazzino armato
di fionda.
Recuperai le grosse cesoie che tenevo appese nella tuga ed iniziai a
troncare i cavi d'acciaio che trattenevano l'albero allo scafo. Cominciai
dalle sartie per passare poi allo strallo di prora. L'albero di metallo
era stato troncato un metro sopra la coperta e lo spezzone mostrava
che la palla era stata di una precisione micidiale, oppure il cannoniere
aveva avuto una fortuna sfacciata.
Avevo ormai troncato le sartie e lo strallo di prora ed ero in procinto
di tagliare quello di poppa, liberando definitivamente l'albero con
le vele, ma ero molto perplesso a staccare quell'ultimo legame. Avrei
preferito filare l'albero in mare e trainarmelo dietro. Tutta quella
attrezzatura persa era una tragedia. Con il boma avrei potuto armare
un alberetto di fortuna e poi c'era una quantità di cavo e tela
ancora utilizzabile.
Lo strallo era già prigioniero delle lame della cesoia ed io
non mi decidevo a tagliarlo e me ne rimanevo come paralizzato in ginocchio,
quando, a farmi decidere, fu l'improvvisa apparizione della goletta.
L'avevo sottovento, ferma che mi mostrava la prora, con le vele che
fileggiavano producendo un fremito come un grosso albero frondoso nel
vento. La maledetta aveva invertito la rotta ed era ritornata verso
di me per terminare la sua caccia.
Troncai il cavo d'acciaio che immediatamente sparì sott'acqua
con l'albero, gettai le cesoie nel pozzetto e mi buttai sui comandi
del motore. Dovevo fare in fretta, prima che il veliero iniziasse a
prendere il vento. Ero assolutamente certo che volesse finirmi con un'altra
bordata.
Il motore si mise in moto al primo colpo, ingranai la marcia e diedi
tutto gas. Il mare lungo da sud est mi aveva fatto scarrocciare ed ora
mi trovavo con la prora in direzione della goletta e dovevo accostare
a dritta per allontanarmi quanto più possibile. Non concessi
al povero Diesel un secondo di tempo per riscaldarsi ed iniziai una
stretta virata.
Se mi fossi diretto contro vento, quel infernale veliero non sarebbe
mai riuscito a starmi dietro e, forse, mi sarei liberato definitivamente
di lui. In piena accelerazione la prora della barca iniziò ad
aprirsi la via nell'acqua scura, mentre alti spruzzi si sollevavano
invadendo la coperta martoriata dall'albero caduto. Mi sentivo pieno
di rinnovato coraggio immergendomi nel buio della notte. Avevo controllato
l'orologio, era l'una ed era trascorsa soltanto un'ora da quando la
goletta mi aveva affiancato per la prima volta. Un'ora soltanto e tutti
i miei progetti e forse pure la mia stessa vita stavano rischiando di
finire in fondo all'oceano.
Alle tre del mattino stavo ancora cavalcando le onde allontanandomi
dall'Africa e giudicai di aver lasciato il veliero tanto indietro e
distante da poter rallentare e dare respiro al motore. Oltre a tutto,
a quella velocità consumavo una quantità eccessiva di
nafta ed ero senza vele. Non potevo permettermi di rimanere a secco
in mezzo all'Atlantico, in balia del mare come un tappo di sughero.
Quattro giorni prima avevo doppiato le isole di Capo Verde ed ora mi
dovevo trovare a poco più di due gradi di latitudine nord. Dovevo
modificare la mia rotta ed accostare verso est per tentare di raggiungere
un porto africano abbastanza attrezzato da permettermi di sostituire
l'albero. Un porto non troppo importante e dove l'autorità non
era eccessivamente curiosa. Non dovevo scordare che il mio era un viaggio
che non prevedeva pubblicità. Sarebbe stata la fine se qualcuno
avesse scoperto che ero ancora vivo e dove ero finito. Consultai le
carte. Avevo a disposizione l'intero Golfo di Guinea per scegliere un
porto, dalla Nigeria al Congo, compresi il Camerun ed il Gabon. Se fossi
riuscito ad armare il tangone dello Spy con un fiocco di fortuna, avrei
potuto procedere con un po' di tela al vento e risparmiare carburante.
Spensi il motore e iniziai a studiare il modo di armare una vela. Tra
un paio d'ore sarebbe sorto il sole e dovevo fare in fretta, un possibile
cambio di direzione di vento poteva favorire la goletta, permettendole
di raggiungermi.
Ero stanchissimo e con il morale in sentina e ancora non riuscivo ad
accettare ciò che stava capitando. Vivevo nell'era dei computer
e qualcuno mi voleva uccidere a cannonate sparandomi da un veliero del
secolo scorso. Era impensabile dopo quanto ero stato in grado di fare
per fuggire la giustizia e scomparire salvandomi la pelle.
Alle cinque e mezzo del mattino stavo ancora tentando di approntare
una scassa sul troncone dell'albero caduto per fissare il tangone e
rizzarlo con delle drizze di riserva che conservavo nel gavone di prora.
Il sole stava sorgendo ed il cielo si era tinto d'arancione. Tutto preso
dal lavoro non mi ero accorto che il vento aveva girato e stava soffiando
da nord est. Non era molto teso, ma riusciva a rompere le creste delle
onde obbligando la barca a rollare disperatamente ed io, per ogni operazione
che svolgevo, ero costretto ad afferrarmi con una mano per non cadere
fuori bordo.
Avvistai le vele mentre bloccavo il tangone dopo averlo infilato nella
scassa provvisoria. Erano appena visibili e si confondevano con la spuma,
ma erano vele e non avevo nemmeno bisogno del binocolo per sapere che
la goletta mi aveva rintracciato.
Mollai tutto per saltare in pozzetto e riprendere la fuga a motore.
Stavolta mi sarei diretto verso est, era inutile portarsi ancora al
largo, avevo un'autonomia limitata e ad un certo momento sarei rimasto
a secco mentre la goletta, grazie al vento, avrebbe potuto raggiungermi
sempre. Lei avrebbe navigato in ogni caso e, vista la stagione, difficilmente
avrei avuto la fortuna di trovarmi in una zona di calma piatta.
Puntai la prora per novanta gradi e ricominciai a fuggire. A conferma
che le vele appena avvistate erano le sue, notai che anche lei stava
accostando e sinistra per dirigere su di me E dall'inclinazione degli
alberi, compresi anche che puntava a proravia per intercettarmi.
Il vento aveva rinforzato ed il veliero procedeva con una buona andatura.
Anch'io camminavo veloce e probabilmente sarei riuscito a filarle di
prora, sempre che il motore avesse retto e la nafta fosse stata sufficiente.
Mentalmente calcolai i consumi, la riserva di carburante e quanta autonomia
mi restava ancora. Avrei potuto navigare ancora per almeno diciotto
ore, insufficienti per raggiungere un porto o la costa.
La mia fuga era senza speranza.
Per tutto il giorno, mentre stringevo la ruota come se potessi aggiungere
la mia energia a quella del motore, osservai quelle vele lontane che
mi tallonavano e diventavano sempre più grandi, mentre la distanza
tra noi diminuiva. Il vento conservava la sua forza e la goletta sembrava
volare sulle onde, superando in potenza quello dei cavalli del mio Diesel.
Al tramonto ci separava meno di un miglio e mi chiesi che gettata avessero
i suoi cannoni e se mi avrebbe sparato di nuovo. Forse voleva solamente
predarmi e a bordo del veliero c'erano dei pirati. Pirati del passato
che navigavano su un vecchio veliero, quando il Mondo viveva l’era
dell’elettronica e dei computer. Pazzesco!
Facevo fatica anche a pensare, ero riuscito a dissetarmi ed a nutrirmi
con acqua tiepida e un paio di scatole di biscotti, ma non avevo chiuso
occhio ed ero sveglio ormai da più di trenta ore. Per quanto
tempo ancora avrei potuto reggere, prima di crollare per la stanchezza?
La goletta mi raggiunse a mezzanotte e, come la notte precedente, mi
ritrovai a guardare quelle ali nere dal sapore di morte. La osservavo
con il binocolo alla ricerca di una presenza, qualcosa di umano, ma
anche questa volta non vidi nessuno. Continuare era inutile, nel serbatoio
avevo nafta appena sufficiente a riempire un boccale di birra. Il mio
viaggio era finito e probabilmente anche la mia vita.
Misi in folle e spensi il motore, assaporando l'improvviso il silenzio.
La barca si fermò percorsi pochi metri per abbrivo. Non avevo
altra scelta e attesi il suo arrivo. Appena giunse ad un centinaio di
metri, la goletta mise la prora al vento. Il cacciatore aveva raggiunto
la sua preda. Eravamo nuovamente affiancati, due scafi immobili mossi
solamente dall'onda lunga.
Tenevo gli occhi incollati al binocolo. A quella distanza potevo notare
ogni suo particolare, in cielo splendeva la luna e c'era abbastanza
luce da illuminarci come teatranti sul palcoscenico.
Nessuno. Non vedevo anima viva. La goletta era deserta, oppure il suo
era un equipaggio di gnomi talmente piccoli da rimanere nascosti dalle
impavesate. Forse mi stavano scrutando attraverso le bocce di rancio
da cui passano i cavi d'ormeggio, oppure dalle fessure degli ombrinali.
Notai anche i quattro portelli sulla murata, uno era sollevato e spuntava
fuori il cannone con il suo foro nero che mi osservava come l'occhio
del diavolo. Ero condannato senza appello.
Istintivamente mi strinsi nelle spalle insaccando la testa, mentre attendevo
la palla d'acciaio che mi avrebbe fatto affondare. Non attesi molto,
forse meno di un minuto, ma sembrò un'eternità. Dalla
goletta spararono e la barca sussultò colpita dal pugno di un
gigante. La prora sparì letteralmente, mentre il pulpito assieme
all'arganello dell'ancora volavano in aria.
Non attesi che da bordo ricaricassero la bocca da fuoco, ma saltai a
poppa dove avevo già gonfiato il battellino di salvataggio. Prima,
però, agguantai la sacca dove avevo sistemato tutto quello che
ritenevo utile da aggiungere alle normali dotazioni di sopravvivenza.
Sganciai il moschettone che tratteneva il battellino e lo lasciai scivolare
in mare, poi mi lanciai in acqua, dietro di lui, afferrandomi ai festoni
di cavo che lo circondavano.
Ero già ad un paio di metri dalla poppa della mia barca, quando
arrivò la seconda cannonata. La palla centrò la barca
nel mezzo passandola da parte a parte. Lo scafo di vetroresina, fragile
come un guscio d'uovo si abbatté sulla dritta rimanendo coricato
sul fianco, poi cominciò ad affondare. Nel frattempo io ero salito
a bordo del battellino, trascinandomi dietro la sacca che avevo subito
aperto.
Prima di ricevere un'altra palla di cannone a conclusione di quella
incomprensibile battaglia, che mi avrebbe definitivamente polverizzato,
volevo prendermi almeno la soddisfazione di sparargli un razzo con la
pistola Very, forse il legno o le vele avrebbero preso fuoco, forse
sarei riuscito anch'io a danneggiare il mio nemico come ultimo atto
prima di soccombere.
Sistemai la cartuccia d'alluminio nella canna della pistola e armai
il cane. Avevo ancora il binocolo appeso al collo e decisi di dare un'ultima
occhiata ai miei assassini mentre si preparavano a finirmi. Rimasi quasi
deluso quando notai che il portello del cannone era stato chiuso. Possibile
che avessero voluto eliminare solamente la barca permettendomi di vivere
ancora? Sembrava proprio che fosse così.
Nemmeno potevo pensare che mi credessero morto, poiché erano
vicinissimi e il mio battellino arancione era ben visibile sulla superficie
del mare. Mi dimenticai di premere il grilletto, tanto era il mio sconcerto.
Il veliero continuava a restare immobile, avvolto dal silenzio, a parte
il frusciare delle vele libere al vento e l'urtare dei cavi delle drizze
lungo gli alberi. L'avevo sopravvento e con la sua mole stava inesorabilmente
scarrocciando verso di me e presto mi sarei trovato sotto il suo bordo,
sempre che non iniziassi subito a darmi da fare con la pagaia.
Preferivo il fondo di plastica del mio battellino e rimanere in balia
dell'oceano con i suoi pericoli, alla solida tolda della goletta misteriosa.
Impugnai la piccola pagaia e iniziai a vogare come un invasato nel disperato
tentativo di allontanarmi dalla sua opprimente presenza.
Sarà stata la stanchezza, la debolezza dovuta alla fame e alla
sete, ma credo di essere svenuto già dopo la prima ora di sforzi
per fuggire ai miei persecutori. Quando mi ripresi, ero abbandonato
con la faccia appoggiata al galleggiante ed un braccio che penzolava
fuori bordo con la mano in acqua. Un sole micidiale mi stava arrostendo
la nuca e sentivo la lingua come una palla di stoppa.
Il mare cullava il mio piccolo mezzo di salvataggio ma il movimento
non era fluido e subiva continui scossoni, come se urtasse qualcosa
di solido. Sollevai lo sguardo per trovarmi a fianco la ruvida e scura
fiancata di legno della goletta, ma nessuna testa sporgeva dalla coperta.
Cercai la pagaia, ma era scomparsa, certamente persa in mare.
Non avevo più speranze e non mi rimaneva altra possibilità
che salire a bordo e mettermi nelle mani dell'equipaggio che, evidentemente,
non s'era ancora accorto che mi trovavo sotto bordo. Non avevo la forza
di gridare e credo che la dignità che m'era rimasta m'impedisse
di chiamare aiuto.
Iniziai a spostarmi lungo il fasciame alla ricerca di un punto che mi
avrebbe consentito di salire in coperta. Artigliavo la pittura umida
e scivolosa della murata come se fosse l'unico appiglio disponibile
su di un baratro senza fine, finché giunsi sotto la poppa. Dal
giardinetto pendeva una cima che finiva a pelo dell'acqua, l'afferrai
e la tirai a me. Reggeva, ma dubitavo che la poca energia che mi rimaneva
mi avrebbe permesso d'issarmi a forza di braccia. Così, senza
mollare la presa, mi sistemai a sedere sul galleggiante. Sopra di me
torreggiava il largo specchio di poppa sporgente come un balcone e più
sopra ancora spuntava il boma della vela di mezzana. Notai subito che
il nome della goletta era Kronos, scritto in larghe lettere bianche
e più sotto il porto d'armamento, Savannah. Era una goletta americana.
Rimasi appeso alla cima per un tempo interminabile, incerto sulle mie
capacità di riuscire a salire e quasi speravo che qualcuno da
sopra venisse a recuperarmi. Avevo pensato di fissare una cimetta del
battello alla cima del veliero e di rimanere lì, sotto la poppa,
a farmi portare come una remora dal suo pescecane. Forse nessuno se
ne sarebbe accorto e come un clandestino mi sarei fatto trascinare verso
la loro prossima destinazione, ma non n'ebbi il tempo, le vele di sopra
stavano prendendo vento e il veliero s'era messo in movimento. Afferrai
la cima con entrambe le mani e con l'ultima forza che mi rimaneva m'issai
rimanendo appeso, mentre il battellino si allontanava sfilandosi da
sotto i miei piedi.
Ora avevo un'unica possibilità, salire e lo feci piano, centimetro
dopo centimetro, con i muscoli delle spalle e delle braccia che urlavano
dolore ad ogni movimento, fino all'ultimo, quando riuscii ad afferrare
il grosso capodibanda di poppa e appoggiare le punte delle scarpe sulla
suoletta sotto l'impavesata.
Mi fermai per riprendere fiato e l'unica cosa che vidi appena superato
il bordo con gli occhi, fu la grande ruota del timone che si muoveva
lentamente da sola, perché ad agire sulle sue caviglie non c'era
la mano di un timoniere. Non c'era nessuno, assolutamente nessuno. Scavalcai
il capodibanda e misi finalmente piede sulla tolda dove rimasi ad ansimare,
stremato dallo sforzo della salita.
Le vele prendevano il vento e, inclinato a babordo, il vecchio legno
stava acquistando velocità, diretto verso Ovest. Il sole aveva
superato lo Zenit ed iniziava la sua discesa verso il mare. L'avevamo
di prora che illuminava l'intera velatura. Mani invisibili avevano regolato
le scotte e la goletta aveva assunto un'andatura di buon braccio e,
se non fosse stato per l'incredibile situazione in cui mi trovavo, avrei
goduto di quella navigazione a vela, ma non avevo ancora conosciuto
i miei ospiti ed era tempo di cercarli.
Mi diressi verso prora, superando il piccolo cassero di comando a proravia
della ruota e mi trovai sotto la maestra. La coperta era deserta, perfettamente
in ordine e lustra come uno specchio. Al centro c'era la baleniera rizzata
sui suoi invasi e ricoperta di una tela grigiastra, mentre su ogni lato
si trovavano quattro cannoni montati sugli affusti di legno. A prora
riuscivo a scorgere il grosso tamburo dell'argano a leva e dai masconi
spuntavano i ceppi delle due ancore Ammiragliato. Tra gli alberi c'erano
le stive chiuse da boccaporti, dei quali uno, molto largo, era a griglia
e permetteva alla luce e all'aria di entrare. Mi chinai su una delle
stive, ma l'interno era troppo buio e non riuscivo a scorgere nulla.
Per scendere sotto coperta c'era un boccaporto anche a proravia del
trinchetto dove probabilmente avrei trovato la cala di prora e forse
anche gli alloggi dell'equipaggio, ma quando provai a far scorrere il
portello lo trovai bloccato. Scoraggiato, non mi chiesi nemmeno come
quella nave navigasse senza un'anima in coperta alle manovre e senza
un timoniere, desideravo solamente trovare dell'acqua da bere e un pezzo
di pane da mordere e ritornai a poppa. Sarei sceso attraverso il portello
del cassero, sempre che anche questo non fosse bloccato. Non lo era,
e scivolò docile sulle sue guide bene ingrassate di sevo.
M'infilai all'interno senza nemmeno pensare che qualcuno avrebbe potuto
tendermi un agguato. Era la cabina del comandante e non rimasi sorpreso
di trovarla vuota. Senza nemmeno rendermene conto avevo accettato il
fatto assurdo che su quella nave l'unico essere vivente ero io.
Il locale era arredato spartanamente: c'erano una cuccetta con le sponde
alte, un tavolo di legno ricoperto di carte nautiche, una piccola libreria
ed un armadio incassato nella paratia. Dentro l'armadio degli abiti
di panno blu, due paia di scarpe nere ed un berretto da capitano a tricorno
e non avevo alcun dubbio che divise così le portava solamente
un ufficiale del mille e ottocento. Anche il cronometro, la bussola
ed il sestante avevano più di cento anni di vita.
Se ventiquattro ore prima qualcuno mi avesse raccontato che esisteva
un veliero fantasma ci avrei riso sopra tanto da slogarmi le mascelle,
ma ora sembrava che la mia mente accettasse un fatto così incredibile
come fosse la cosa più naturale del mondo. Sentivo in un angolo
sperduto del cervello una voce che mi gridava di reagire, di non credere
a quello che stavo vedendo, di prendere l'accetta che stava appesa ad
una paratia e di forzare tutti passaggi disponibili per andare a cercare
l'equipaggio. Perché un equipaggio doveva esserci!
Forse era composto di sadici burloni e si tenevano ben nascosti, oppure
erano rinchiusi, prigionieri di un comandante impazzito che al culmine
della follia s'era gettato in mare.
Come un automa afferrai l'accetta e corsi a prora a sfondare il boccaporto.
Con furore feci a pezzi il battente e mi gettai all'interno ruzzolando
giù da una ripida scaletta. Nulla, nessun grido di gioia, nessuna
esclamazione, nemmeno qualcuno che mi affrontasse. I locali di prora
erano desolatamente vuoti. C'erano poche cuccette disfatte con le coperte
ammucchiate a terra sul pagliolo e negli altri locali che percorsi come
un forsennato, solamente materiali, vele, cavi, vasi di pittura, attrezzi
da carpentiere, ma nemmeno un corpo.
Quando tornai all'aperto, in coperta, ero al limite delle forze e sentivo
che il senno mi stava andando alla deriva come il mio battellino. Avevo
fatto tanto rumore che anche i morti si sarebbero dovuti svegliare.
Mi misi ad urlare più per liberare l'angoscia che mi attanagliava
che per richiamare l'attenzione di qualcuno, tanto, avevo capito che
a bordo non c'era proprio nessuno. Mi trovavo su di una nave fantasma.
Era contro ogni logica, mandava in crisi la mia ragione, di solito
coerente e di cui ero tanto fiero e mi riempiva lo stomaco vuoto di
un senso di nausea che mi annebbiava la vista. Dovevo accettare l'idea
assurda che ero l'unico essere vivente a bordo.
Improvvisamente, mi ricordai che dovevo visitare ancora la stiva e iniziai
subito, sollevando i boccaporti e spostandoli sulla coperta. Intendevo
aprirla completamente perché la luce rimasta del giorno trascorso
potesse filtrarci. Farneticavo, ancora preda della paura che mi aveva
preso mentre vagavo sotto prora nella penombra, poi, tolti i boccaporti
mi calai nuovamente sottocoperta, nella stiva della goletta.
Quello che provai, appena sceso, fu un pugno in fronte, tanto forte
da farmi cadere in ginocchio. L'ampio locale era arredato con tre file
di tavolacci di legno sistemati a formare castelli di quattro ripiani,
sia a sinistra sia a dritta. A lato d'ogni ripiano c'era, ben fissato,
un anello di ferro e ad ogni anello, c'era attaccato uno spezzone di
catena che finiva in un bracciale munito di serratura. Quella stiva
era una prigione. Mi trovavo a bordo di una nave negriera e sopra quei
tavolacci viaggiavano incatenati i neri catturati in Africa Occidentale
e diretti in America come schiavi.
Sgomento, fuggii in coperta dove il sole al tramonto infiammava le vele
e l'orizzonte, mentre la goletta continuava imperturbabile sulla sua
rotta.
Avevo abbandonato il mio paese per fuggire alla giustizia, braccato
con l'accusa d'omicidio. Sapevo che se mi avessero catturato sarei finito
sulla forca, perché nulla avrebbe potuto salvarmi dalla pena
che mi attendeva.
Ero riuscito a procurarmi la barca a vela e, da esperto marinaio, intendevo
sparire tra le infinite possibilità di rifugio che mi offrivano
i tanti arcipelaghi dell'Oceano Indiano o Pacifico. Sapevo tutto questo
ed ero fermamente convinto di riuscirci, avevo previsto tutto, ogni
possibilità, ogni minimo particolare. Tutto, meno il Kronos,
il veliero dove ora ero prigioniero, un legno che faceva la spola tra
l'Africa occidentale e Savannah in Georgia, il porto dei commercianti
di schiavi.
Kronos, il dio del tempo e di tempo avevo ormai capito che mi sarei
dovuto nutrire per il resto dei giorni del mondo. Dovevo abituarmi all'idea
che da quella nave non sarei più sbarcato. Anche se avessi consumato
tutte le casse di gallette ammucchiate nella cala di prora e tutta l'acqua
delle botti, e avessi pescato dal mare e bevuto acqua piovana, non sarei
mai invecchiato e nemmeno morto, perché già lo ero.
Appena il sole si fosse immerso nell'Atlantico, sarei stato ancora solo
oppure con la notte sarebbe riapparso l'equipaggio di negrieri e dalla
stiva avrebbero ripreso i lamenti degli schiavi?
Avrei passato il resto dei miei giorni e l'eternità incatenato
su qualche tavolaccio nella stiva? Non lo sapevo ancora, ma avevo la
certezza che la mia fuga era terminata. La giustizia aveva trionfato
e la pena che mi era stata comminata, ora andava scontata.
Andai a sedermi a prora, alla base del bompresso. Non soffrivo più
la sete e la fame e la stanchezza erano scomparse. Sentivo il vento
fresco tra i capelli, nella barba che mi ero fatto crescere per rendermi
irriconoscibile e osservavo il mare sempre più cupo. Mi ritornò
alla mente un vecchio proverbio arabo: il destino ti aspetta sulla strada
che hai scelto per evitarlo.
Avevo incontrato il mio.
Ora non mi restava altro da fare che attendere l'arrivo dei miei carcerieri
e, con loro, quello dei miei compagni di viaggio.
paolo
carbonaio