4 - La vela nel sangue
"Diario di una Barcolana"
Avevo
deciso di partecipare con la mia vecchia barca a vela alla famosa regata
"Barcolana" o "Coppa d'autunno", com'è ufficialmente
chiamata, che si svolge ogni ottobre nel golfo di Trieste. Dovevo trovare
un equipaggio di amici e Franco e Nevio aderirono con entusiasmo. Onestamente
parlando, i due erano completamente a secco d'esperienza, non solo per
regatare ma anche per fare da passeggeri su di un vaporetto per il solo
giro del golfo, ma volevo tentare l'esperimento di imbarcare due "terricoli"
e riuscire nel contempo a regatare al meglio.
Appuntamento, domenica mattina all'alba! Ad ognuno il suo compito, a
me la barca e il comando, a Franco nominato Primo di coperta la merenda
e a Nevio, nominato Direttore di macchina (era diplomato al Nautico
nella sezione macchinisti) il vino.
Il primo trauma l'ho avuto al loro arrivo sulla banchina. Franco si
era vestito come la pubblicità della Minestra dell'Ortolano.
Il suo metro e novanta d'altezza era infilato in un paio di pantaloni
di velluto marrone a coste, camicia di flanella a scacchi, giacca a
vento senza maniche color verde foresta e con lo stemma del Tiro a Segno,
stivali di gomma con suole carro armato e, per finire, sulla testa come
la cupola di San Pietro, un berretto di lana blu elettrico con pon-pon
variopinto. Era a dir poco allucinante!
Nevio era molto più sobrio. Indossava pantaloni di panno blu,
giacca di marina blu a doppio petto, maglione pesante a collo alto blu,
mocassini blu con suola di gomma e sulla testa un cappellino, naturalmente
blu, con su ricamato "Love NY". Si rischiava di perderlo di
notte, ma era sicuramente in tinta.
Il primo pensiero è stato quello di nascondermi dietro un paio
di baffi finti per non farmi riconoscere dai soci del mio Circolo, ma
mi sono ricordato che portavo i baffi e barba veri da un sacco d'anni!
Forse, se ci fosse stata la nebbia si poteva passare inosservati, ma
il cielo di quell'alba era terso e limpido come la coscienza d'un neonato.
Decisi che dovevamo partire subito prima che il porticciolo si riempisse
di gente. Mi sentivo imbarazzato come una diciottenne al suo primo ballo
con l'abito adattato della madre.
Con
l'aiuto del mio Primo di coperta stavo armando la randa, o meglio, rispiegavo
per la terza volta a Franco cosa sono, chi sono e come s'inseriscono
i garrocci, quando da prua ci arrivò il rumore di catena e di
ferro e, soprattutto, quello assordante di ferro contro malleolo. Era
Nevio che toglieva l'ancora dal suo alloggiamento per sistemarla nel
gavone perché era obbligatorio regatare senza l'ancora a prua.
Le imprecazioni che seguirono il botto riempirono l'intero porticciolo
come una grandinata di fine estate. Lanciai uno sguardo smarrito alla
banchina per assicurarmi se era deserta, terrorizzato di trovarvi altri
soci con mogli e bambini. Il macchinista era riuscito ad inventare bestemmie
tali che non si erano mai sentite, nemmeno in occasione dei naufragi
più famosi.
La
giornata si rivelava splendida e sole e vento erano garantiti. Era previsto
un bel maestrale.
Lasciai
il porticciolo come un ladro e con la scusa che si doveva fare ordine
nella tuga, obbligai il mio equipaggio a rimare sottocoperta mentre
io al timone salutavo le poche anime che iniziavano a preparare le loro
barche. Come tutti i circoli nautici che si rispettano, anche il mio
aveva tra i soci certe lingue biforcute che chissà come hanno
la proprietà miracolosa di essere sempre presenti nei momenti
meno opportuni. Vedermi a bordo con due tipi così "strani"
e avulsi dal mondo della nautica sarebbe stato l'argomento più
"chiacchierato" di tutta la stagione velica. Non intendo dire
che solo chi sa vestire da yachtsman è un vero marinaio, anzi,
ma come ogni hobby anche questo ha le sue "abitudini" che
poi sono diventate regole e tutti, più o meno, le seguono.
Durante il trasferimento a motore verso il campo di regata controllai
le borse dei vettovagliamenti. Franco aveva contribuito con olive, carciofini
e cipolline sott'olio in barattolo e ogni possibile insaccato avvolto
in carta oleata, nel senso intrisa d'olio, quello dei barattoli mal
chiusi. Pane all'olio. Nevio, l'addetto al vino, aveva portato tre bottiglie
di rosso, tappo corona, vuoto a rendere.
All'arrivo
sul campo di regata ci attendeva uno spettacolo eccezionale. Il mare
era pieno di barche, almeno un migliaio, che navigavano in tutte le
direzioni, chi a vela e chi a motore e noi dritti nel mezzo verso la
pazza folla, randa a riva e genoa medio pronto da issare. Per il mio
equipaggio era un'esperienza nuova e ne rimase letteralmente sconvolto.
Uno urlava agitatissimo che avevo una barca a sinistra, l'altro al colmo
della disperazione m'indicava quella di prua. Il panico si stava diffondendo
e sembravamo una zattera di naufraghi sotto l'attacco degli squali.
Il mio equipaggio era riuscito ad attirare l'attenzione dell'intero
campo di regata e non dimenticherò mai le facce sconcertate delle
barche più vicine.
Finalmente,
dopo mezz'ora di sudori freddi e nervi tesi, il Via.
Affrontiamo la linea di partenza.
Discussione: l'abbiamo già superata o no?
Avvolti da una marea di concorrenti, l'unica cosa certa è che
abbiamo la prora nella stessa direzione degli altri. Fatto che li tranquillizza.
Siamo in regata!
Ora non rimane altro da fare che raggiungere la prima boa con un lungo
bordo di bolina. Fantastico! L'equipaggio si rilassa, ma rimane vigile
e con le mani strette spasmodicamente sulle scotte, le espressioni molto
sofferte, da uomini duri. Gente da Sector, insomma.
Ma
più che il dolor poté il digiuno.
Franco, dopo un quarto d'ora di terrificanti brontolii nella pancia,
tali da superare il rumore del vento sulle vele, s'infila sottocoperta
rischiando un frontale col boccaporto e riemerge stringendo il sacchetto
della merenda assieme ad una bottiglia di vino. La apre e versa il vino
nelle gamelle, non senza le calde raccomandazioni di Nevio che lo invita
a non gettare il vuoto a rendere.
Distese tutte le carte di salumi a poppa, Franco prepara tre panini
così alti da sembrare di misura eccessiva anche per gli ospiti
di Jurassik Park. Erano tutti farciti d'olive, cipolline e carciofini.
Fu una vera abbuffata!
Sono passati molti anni e due di queste olive, incastrate nel pozzetto,
sono diventate parte dell'attrezzatura della barca. Sono state pure
menzionate nell'ultima visita del Registro Navale Italiano, al rinnovo
delle dotazioni di sicurezza.
Per le olive pazienza, ormai mi sono affezionato ad averle a bordo e
quasi mi spiacerebbe se dovessero sparire, ma quello che mi ha veramente
sconvolto è stato l'olio! Olio sulle panche, sulla coperta, sulle
scotte e sulla barra del timone. Più cercavo di pulire, più
scivolavo, metaforicamente parlando, verso l'abisso della follia. Ma
non potevo arrabbiarmi, Franco e Nevio erano pur sempre ospiti!
All'avvicinarsi
della prima boa lo spettacolo era unico. Come tanti piccioni attorno
all'unico grano, le barche vi si ammassavano e noi dritti verso il Caos.
Sui volti del mio equipaggio si leggeva la medesima ansia di coloro
che per la prima volta si accingono ad affrontare Capo Horn.
Considerando la qualità dei miei uomini, la loro scarsa esperienza
alle manovre, contrapposta in ogni caso a tanta buona volontà,
ho ritenuto che era consigliabile prenderla larga, fuori della zuffa.
Ho accostato e mi sono diretto a sinistra della boa, o meglio della
foresta di vele e alberi che nascondeva la boa.
Se devo essere onesto l'ho presa molto larga, tanto larga che il Primo
di coperta in piedi a poppa, mani unite dietro la schiena, con molta
calma commentava: "Se la prendevi solo un po' più larga,
potevo spedire una cartolina da Klagenfurt".
Lo ignorai.
Non
era una manovra tattica da manuale, ma si rivelò giusta, anche
se ci costrinse ad ammirare le nuche degli spettatori con le barche
a motore che stavano attorno alla boa.
Il vento rinforzava e mi resi conto che tante barche che alla partenza
ci precedevano ora erano in stallo, ammassate al giro di boa ad urtarsi
l'una con l'altra. Potevamo superarle con facilità, quindi, ordinai
di armare il genoa grande leggero sullo strallo alto, ammainare quello
medio e tolto lo strallo basso, issare il grande sulla dritta, il tutto
nel minor tempo possibile. Alla svelta!
Scoppiò il panico.
Più li sollecitavo, vedi Comandante Blight, più s'intralciavano
tra loro. Il Macchinista, obbediente, ammainò immediatamente
il genoa medio mentre il Primo, con la massima calma, mi raggiungeva
a poppa e placido chiedeva: "Avresti del CRC? Il moschettone di
prua è duro, se lo desideri, te lo sistemo per bene". La
barca con la sola randa agonizzava e mi chiesi se avessi avuto diritto
alle attenuanti se lo abbattevo a colpi di mezzomarinaio e poi lo affondavo
in compagnia della mia ancora migliore!
I minuti scorrevano inesorabili e noi avanzavamo alla velocità
di una paperetta di gomma nella vasca da bagno.
I due riuscirono in ogni modo e con sofferta agitazione ad issare il
grande genoa di colore giallo canarino e la barca riprese l'abbrivo,
il vento stava rinforzando notevolmente. Ad essere sincero avevo usato
dei toni molto convincenti, tali da rovinare un'amicizia e dare inizio
ad una nuova faida. Franco e Nevio si scambiavano sguardi da equipaggio
del Kayne e mi avrebbero fatto comodo le palline d'acciaio che Bogart
rigirava tra le dita, sarebbe stato meglio che mordere la barra. Ma
la barca finalmente, nonostante l'età e il peso, aveva ripreso
velocità e volava sull'acqua riportando il nostro entusiasmo
alle stelle.
Le centinaia di vele che ci circondavano s'erano dissolte e soli, contornati
di schiuma, sembravamo lo spot pubblicitario di un deodorante.
Eravamo
quasi a tre quarti del secondo lato del percorso, quando il vecchio
genoa si aprì come un papavero, sbocciando di colpo per circa
tre metri di lunghezza per poi afflosciarsi in acqua. I miei compagni
rimasero di stucco, alla maniera di due bambini ai quali scoppia il
palloncino ma dopo un attimo d'incertezza, come un sol uomo corsero
a prua a toglierlo per sostituirlo con quello ammainato prima. Il tutto
nell'arco di secondi.
Non ebbi nemmeno il tempo di ordinarlo!
Franco, coltello tra i denti, liberava lo strallo dai miseri brandelli
del defunto genoa, mentre Nevio dopo averlo fissato allo strallo basso,
issava il sostituto con la foga di un campione olimpico.
I due terricoli si erano trasformati nelle Tigri di Mompracem!
Devo onestamente ammettere che mentre in lacrime piangevo la perdita
del mio amato genoa giallo, mi sono sentito orgoglioso di loro. Avevamo
perso tempo e molti ci avevano superato, ma eravamo pur sempre in gara
e più combattivi di prima!
Nell'ultimo
lato del triangolo di gara, scarsi di vela, pareva di risalire un fiume
di barche che scivolava verso il traguardo. Le tentammo tutte per non
farci superare: armammo anche il piccolo fiocco da tempesta tendendolo
con il mezzomarinaio, mentre il genoa medio lavorava con il tangone.
Anche il Primo volle collaborare con le sue ragguardevoli orecchie a
sventola.
Tagliato finalmente il traguardo, in tempi quasi dignitosi, felici di
aver terminato la regata e sempre con il vento in poppa, dirigemmo verso
il porto, esausti e pesti, ma soddisfatti.
Il
Direttore di macchina, in piedi sulla tuga, stava commentando le nostre
avventure e mi confermava, riferendosi ai miei ordini bruschi, che mai
a bordo ci sarà amore tra macchine e coperta, quando un colpo
della sartia volante gli strappò dal capo il cappellino gettandolo
in mare. Una tragedia! Era un caro ricordo di viaggio. Con manovra da
manuale, strambo senza vittime e ritorno sul luogo dove il cappello
galleggia, fermandomi a pochi centimetri dal naufrago. Il macchinista
raccoglie il suo prezioso cappellino e fradicio d'acqua se lo cala sulla
zucca.
Inzuppato e gocciolante esclama: "Come sono felice!"
All'ormeggio,
stanchi ci riposiamo e stappiamo l'ultima bottiglia. Il tappo corona
salta in mare e le gamelle si alzano nell'ultimo brindisi. Dimentichiamo
le perdite, le ginocchia e le mani doloranti, le piccole divergenze,
le imprecazioni e certi pesanti commenti personali. Eravamo tutti molto
compiaciuti dell'esperienza passata e nonostante la perdita della vela
maggiore, di aver concluso lo stesso la gara.
Franco, baciando la sua tessera del C.A.I., commenta placido che si
è divertito, ma per lui la vita va presa con più calma,
mentre Nevio scopre di avere la vela nel sangue. Doveva assolutamente
comprarsi una barca!
La giornata è finita e ognuno raccoglie le sue cose. L'Ortolano,
da uomo preciso, prende anche il sacchetto dell'immondizia che getta
nel bottino posto sul molo e se ne va. Anche il Macchinista scende e
felice se ne va (l'anno dopo si è comperato una barca a vela).
Per ultimo, fatti i rituali controlli alla barca ormeggiata, scendo
anch'io e allontanandomi scorgo il Macchinista chino nel bottino strapieno
di rifiuti maleodoranti che recupera i vuoti. Diavolo, c'era la cauzione!
Ora, dopo anni, ricordando quella giornata e come ci siamo comportati,
mi rendo conto che i Fantozzi non vivono solo nei libri di Paolo Villaggio.
paolo
carbonaio